Appena entrata nella tana del lupo, cioè al congresso Cgil, Giorgia Meloni mostra subito a tutti che lei non è Cappuccetto rosso. E quindi, rivolta agli sparutissimi contestatori che intonano polemicamente Bella Ciao (un paio di decine su quasi mille delegati), avvisa: “prendo fischi da quando avevo 16 anni, figuratevi se mi possono impressionare”.
È anche vero che a introdurla sul palco era stato, poco prima, il segretario Maurizio Landini, che del lupo ha davvero poco, molto di più ha del gentleman che si preoccupa dell’accoglienza alla sua ospite: “abbiamo invitato la premier perché questo è un congresso aperto, noi vogliamo parlare con tutti, ma dobbiamo anche saper ascoltare. La sua presenza è un segno di rispetto nei nostri confronti”. E altrettanto ne avremo per lei, non lo dice ma è sottinteso. Dunque, con l’ala protettiva di Landini sulla testa, Meloni attraversa la platea e sale sul palco per un discorso che in questi giorni qualcuno ha definito addirittura “storico”, e che lei, a sua volta, ritiene – modestamente – una “autentica celebrazione dell’unità nazionale”, di cui proprio oggi, 17 marzo, ricorre l’anniversario.
Diciamolo subito: al netto di qualche ‘’lecchino’’ superfluo all’indirizzo della Cgil (cita la. bracciante Argentina Altobelli, una delle “madri” fondatrici del sindacato, sottolinea più volte “sono d’accordo con Landini”, ricorre addirittura, spesso, all’inciso “banalmente”, avverbio molto usato dal segretario nei suoi discorsi) e di qualche battuta un po’ scontata (“la Cgil dice di non essere un sindacato di opposizione, pensa se lo fosse, visto che ieri ha criticato tutto l’operato del nostro governo”), la premier se l’è cavata assai bene. Ha riconosciuto il valore del sindacato, il valore del confronto, ma nello stesso tempo ha difeso i provvedimenti del governo: dalla contestatissima delega fiscale, approvata appena ieri e “troppo frettolosamente bocciata” (sulla quale già aleggia un possibile sciopero di Cgil, Cisl e Uil) alla scelta di abolire il reddito di cittadinanza, ribadendo che “per uscire dalla povertà c’è una sola strada valida, quella del lavoro e della crescita economica”.
Si toglie anche lo sfizio di spiegare alla platea che il salario minimo non è la risposta alle buste paga troppo basse, ai salari che non crescono da decenni, e che sono, pertanto, i più bassi d’Europa: ‘’un salario imposto per legge rischia di non essere una tutela aggiuntiva, ma una tutela sostitutiva’’, scandisce, contraddicendo l’argomento che ieri era sembrato un po’ il minimo comune denominatore destinato a unire l’opposizione parlamentare, nonché terreno su cui hanno gareggiato per la primogenitura Elly Schlein e Giuseppe Conte. La strada più efficace per aumentare le buste paga, afferma Meloni, resta invece quella di rafforzare ed estendere la contrattazione e le sue tutele a tutti: “Landini dice ‘stesso lavoro, stessi diritti’, e io su questo sono d’accordo da sempre”.
E ancora, elenca: eliminare i contratti pirata, ridurre le tasse sul lavoro, introdurre un “ammortizzatore sociale universale”, che protegga dalla perdita del lavoro tutti nello stesso modo, lavoratori dipendenti, autonomi, atipici, ecc. E ancora: da’ ragione a Landini anche sulla assenza di politiche industriali, garantendo che il suo governo sta lavorando alacremente per rimediare. E ancora, in un passaggio ardito: partendo dal giuslavorista Marco Biagi, ucciso 21 anni fa dalle Brigate Rosse, (e all’epoca non esattamente considerato un amico dalla Cgil), Meloni lancia l’allarme rispetto ai nuovi fenomeni di “violenza politica”, ricordando tra questi “l’inaccettabile attacco degli esponenti di estrema destra alla Cgil”, e riscuotendo un doveroso ma assai timido applauso dalla platea.
Al sindacato, nel finale, propone un “gioco di squadra”: “su qualcosa saremo d’accordo e su qualcosa altro no, ma io sono pronta a fare la mia parte, e le vostre istanze saranno sempre ascoltate con attenzione, perché tutti abbiamo lo stesso obiettivo, il bene del paese”. (Lei dice “nazione”, ma tant’è). Ricorda che d’altra parte quella del confronto è fin dall’inizio la scelta del suo governo: “abbiamo fatto 20 incontri in 20 settimane, e a differenza di Landini non li ritengo inutili, per me è sempre stato ascolto serio e senza pregiudizi, perché so che posso imparare anche da chi è molto lontano da me”.
E su questa mano tesa al confronto si conclude l’avventura. Meloni lascia la tana del lupo indenne e, si potrebbe dire, vittoriosa, anche se la sua uscita è accompagnata da un silenzio quasi siderale, rotto da un applauso di cortesia cosi flebile da far dubitare di averlo udito. Ma anche Landini può cantare vittoria. La presenza della premier ha illuminato mediaticamente per giorni il Congresso, ma ha anche, e soprattutto, riconosciuto il valore di interlocutore privilegiato al sindacato di Corso Italia. Sabato mattina ci sarà la replica del segretario a tutto questo e a molto altro. Nei prossimi giorni, o settimane, sapremo anche se il confronto tanto auspicato dalla premier e da Landini si concretizzerà in qualcosa di tangibile, o se saranno state solo chiacchiere e passerelle.
Nunzia Penelope