Il contratto collettivo speciale di lavoro, firmato da Stellantis, Iveco, Cnh Industrial e Ferrari, costituisce una pedina importante nella costruzione di nuove relazioni di lavoro. Ma per Vincenzo Retus, responsabile delle relazioni industriali di Iveco e Cnh Industrial, rappresenta qualcosa di più, soprattutto perché rafforza il sistema della partecipazione, vitale per la crescita di un’azienda perché si alimenta così un meccanismo virtuoso di catena del valore. Il lavoratore si sente infatti coinvolto nella gestione dell’azienda, migliora la sua prestazione, diventa più produttivo, fa crescere l’azienda e, grazie al premio di risultato, fa crescere anche la sua retribuzione. Ed è per questo che nelle premesse di questo accordo è stato inserito un preciso riferimento alla cultura del lavoro che dovrebbe, afferma Retus, acquisire maggiore centralità. Resta il rammarico per l’assenza della firma della Fiom. Ma, afferma Retus, con la Fiom in questi ultimi anni sono stati raggiunti importanti accordi e, se non è stato possibile avvicinare le posizioni delle parti, questo non significa che non ci possano essere presto nuovi tentativi di sintesi.
Retus, avete raggiunto un accordo importante, specialmente nella parte retributiva.
Si, certamente. Ma questo accordo è importante soprattutto perché consolida, anzi rafforza, il sistema della partecipazione, che per noi di Iveco e Cnh Industrial non è uno slogan, non è un approccio rituale. No, noi ci crediamo perché con il sistema partecipativo, con il sistema delle commissioni, uno degli strumenti con cui la partecipazione si realizza, con la propensione al dialogo si crea, o si tenta di creare, un meccanismo virtuoso di catena del valore.
Perché parla di catena del valore?
Perché nel momento in cui il lavoratore, attraverso le rappresentanze sindacali, anche nell’ambito del sistema delle commissioni, partecipa per tutte le materie che a queste vengono delegate, non solo è coinvolto ed è stimolato ad esprimere la sua posizione da un punto di vista professionale, ma come individuo che opera in questa azienda, in questa comunità, riesce a dare un contributo in termini di produttività, efficacia, efficienza, alimentando così questa catena del valore. Il lavoratore si sente parte attiva di un processo produttivo. Se poi tutto ciò si coniuga con il premio di risultato, ecco che il lavoratore, con la sua prestazione, contribuisce anche a creare situazioni retributive migliori per sé stesso.
Con la partecipazione si ha più coinvolgimento, più produttività, più crescita e anche più salario.
Più salario, ma anche maggiore “job security”, che io oggi metterei alla stessa stregua del salario. È una conditio sine qua non per una vita dignitosa. Una vita senza lavoro, senza potersi esprimere anche professionalmente, non è certo una bella vita.
Direi che la formula del CCSL risulta vincente.
Sì, e la cosa principale è proprio la creazione di questo ambiente partecipativo. Io credo che sia questa la differenza rispetto ad altre aziende, perché a parità di capitali investiti, di tecnologia comprata, chi realizza partecipazione esprime un valore in più. Il prodotto dell’azienda nella percezione del cliente può diventare “unico”, nel senso che esprime e porta con sé il profilo identitario del luogo, delle persone e dell’azienda che l’hanno fatto. E poi un’azienda che pratica la partecipazione non ha conflitto, ma sinergie di intelligenze, di know how, di competenze. Il rischio è che il conflitto diventi un vantaggio competitivo per la concorrenza, perché laddove c’è il conflitto non ci può essere unità di intenti, di obiettivi, di sforzi sinergici. Il conflitto divide, disperdendo forze ed energie a vantaggio di chi non ce l’ha.
Il conflitto però è anche utile perché evidenzia la presenza di un problema. La differenza è avere un sistema di relazioni industriali in grado di affrontare e risolvere quel problema.
Questo è sicuro. Si deve essere in grado però di individuare i problemi e risolverli rapidamente. Anche lo sciopero può essere un’occasione di analisi delle problematiche che lo determinano e alimentano e, per chi lo subisce, resistendo, un’occasione per affermare una leadership coerente, rigorosa, e capace di difendere principi importanti.
Basta che lo sciopero non sia un atto valido per sé stesso.
Assolutamente.
Lei parla in termini elogiativi della partecipazione. Ma questo non è un sentimento molto diffuso nel mondo imprenditoriale. Come mai?
A volte si ha la presunzione di poter fare tutto da soli, e invece è proprio sbagliato. Noi nelle premesse di questo accordo abbiamo inserito un dato valoriale di base, quello della cultura del lavoro. Oggi nelle aziende vivono tanti valori, ma mi ha sempre sorpreso che non si dia centralità al valore del lavoro. E questa è una forte anomalia, perché il valore del lavoro, per chi sa coltivarlo, per chi lo sa autenticamente rispettare, è un riferimento importante, che fa sintesi e crea le condizioni per soddisfare le esigenze dell’azienda e dei lavoratori. Del resto, come è possibile immaginare un’azienda senza “il lavoro”?
Eppure, il valore del lavoro è andato progressivamente perdendo di centralità.
Ed è un peccato, perché se il lavoro diventa centrale si riesce ad avere un ambiente più sano, più collaborativo, più stimolante, più partecipativo, più umano, più professionale, e tutto questo si riflette immediatamente sul risultato finale. Per questo non apprezzo certe forme di organizzazione del lavoro, che pure vanno per la maggiore, come per esempio lo smart working, che allontana dai colleghi, distrae, non coltiva la cultura dello stare insieme, premia più l’individualismo che lo sforzo collettivo, non contribuisce alla creazione del profilo identitario dell’azienda. Probabilmente si andrà in questa direzione, ma io la penso diversamente. Credo che il contatto umano sia fondamentale nella trasmissione dei saperi, un patrimonio che va coltivato e lo stare insieme in azienda è un po’ come il terreno fertile per un buon frutto che cresce.
L’accordo ha numerosi aspetti positivi. C’è rimasta male la Fiom, che non ha partecipato alla trattativa.
Noi non vediamo il contratto come una semplice reciproca concessione tra le parti, ma come un patto forte e stabile per preservare industria, occupazione e benessere, specialmente in un contesto di grande trasformazione, quale è quello che stiamo vivendo. Quando a un patto così inteso manca qualcuno non è mai un successo. L’esperienza fatta con Fiom in questi ultimi anni è assolutamente positiva. Di fronte a fatti importanti, di valore strategico, in un contesto estremamente complesso, siamo stati capaci, azienda, sindacati firmatari e non, di metterci comunque allo stesso tavolo per raggiungere accordi unitari, con risultati economici e occupazionali di grande valore: diciamo che si può stare al governo, ma anche fuori dallo stesso, dando il proprio appoggio, significativo, esterno.
Però la Fiom non ha preso parte alla trattativa.
Purtroppo non è stato possibile avvicinare le posizioni delle parti, ma questo non vuol dire che non ci siano, e che non ci debbano essere in un futuro prossimo, tentativi di sintesi comune. La Fiom ci ha chiesto un incontro, lo abbiamo accettato con la consueta disponibilità e cercheremo di vedere quale sia la migliore sintesi possibile. Penso che, come un imprenditore persegue lo sviluppo della propria azienda, allo stesso modo un’importante organizzazione sindacale voglia lo sviluppo e il consolidamento dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di lavoro, del salario, e così via. Senza azienda non c’è lavoro, non c’è sindacato, non c’è scambio di ricchezza, e non c’è nemmeno quello che una volta si definiva ascensore sociale.
Massimo Mascini