Sarà il caso di cominciare a parlare anche di profitti? Il dibattito sull’inflazione è da mesi dominato – a volte sotto traccia, sempre più spesso in bella evidenza – dall’incubo di un’ondata di aumenti salariali che scardinino qualsiasi ancoraggio dell’inflazione e radichino nell’economia le aspettative di incrementi dei prezzi senza fine, stile anni ‘70. Ai vertici della politica monetaria europea, l’attenzione è quasi ossessiva. Christine Lagarde, nella sua ultima conferenza stampa, ha citato i salari 14 volte. Eppure, al momento niente giustifica tanta preoccupazione. Gli aumenti salariali degli scorsi mesi in Europa. sono nell’ordine del 2-3 per cento. In Italia ristagnano addirittura intorno all’1 per cento. Contratti-guida come quello dei metalmeccanici tedeschi si sono chiusi in termini che tutti giudicano ragionevoli. Gli economisti si aspettano, nei prossimi mesi, aumenti delle buste paga del 4-4,5 per cento, assai poco incendiari contro una inflazione che ha toccato il 10 per cento.
Anche gli uffici studi del Fondo monetario internazionale – difficilmente arruolabili nel pensiero radicale – avvertono che, storicamente, gli aumenti salariali non innescano la spirale dell’inflazione, prezzi-salari-prezzi.
Difficile, del resto, sostenere che l’inflazione attuale sia determinata da salari che, in termini reali, hanno di fatto perso il 5 per cento di potere d’acquisto. Ma, in materia leve di inflazione, cosa avviene dall’altra parte del tavolo, il lato delle imprese, dove si fanno i prezzi?
In Germania, un centro studi conservatore, come l’Ifo, avverte che, a fine 2022, le aziende hanno incrementato in misura significativa i profitti, soprattutto in comparti come commercio, edilizia, trasporti, agricoltura. In generale, comunque i margini delle aziende tedesche sono cresciuti nettamente un po’ in tutti i settori. Secondo l’ufficio studi di Unicredit, questo sembra valere per tutta l’eurozona, dove i margini operativi lordi – nonostante il boom dei costi dell’energia, che sembravano dover affondare le imprese – sono tornati sopra il trend del 2019. Ad affondare, come abbiamo visto, sono stati invece i salari reali, mentre le aziende si dimostravano in grado di soffiare sui prezzi, alimentando l’inflazione. La Reuters riferisce di un sondaggio presso 106 aziende (fra cui Stellantis e Hermès) che, nel 2022, hanno accresciuto i loro margini operativi del 10,7 per cento, ovvero un quarto in più di quanto avessero fatto nell’ultimo anno prima della pandemia.
Alla fine, anche la Bce sembra essersene accorta. Christine Lagarde, nella sua conferenza stampa, i profitti non li ha citati mai, ma Francoforte assicura che monitorerà i ricarichi delle imprese rispetto ai costi “con la stessa attenzione riservata ai salari”. Le slide che hanno accompagnato il riservatissimo dibattito che i vertici della Bce hanno recentemente tenuto in un resort della Lapponia sottolineavano – riferisce la Reuters – che, nonostante il forte aumento dei costi degli input (energia e non solo), i margini delle imprese, anziché ridursi, sono cresciuti.
L’impressione, nettissima, insomma, è che le imprese, sull’inflazione, abbiano giocato d’anticipo, spingendola più di quanto i costi avrebbero giustificato. Sul fronte della lotta all’inflazione, questa parrebbe una buona notizia, in grado di aiutare le colombe di Francoforte a moderare la corsa al rialzo dei tassi di interesse invocata dai falchi. In linea di principio, infatti, se sono le imprese a muovere i prezzi, la spinta si esaurisce quando subentra la paura che gli aumenti facciano perdere quote di mercato. Una sorta di autocorrezione spontanea che non richiede la pressione di una politica monetaria che rincari sempre più il costo del credito.
Ma non è così semplice, avvertono a Unicredit. Anzi, questa bonanza dei profitti, paradossalmente, può aiutare i falchi. Nel disegno di politica monetaria oggi vincente a Francoforte, infatti, la strategia scelta è di frenare l’inflazione, riducendo l’attività economica, ovvero la domanda, l’occupazione. Ma, se le imprese riescono ad alzare i prezzi, vuol dire che la domanda è ancora forte e se i bilanci aziendali sono a posto continueranno ad assumere e a tener bassa la disoccupazione. Senza scordare che, se le casse sono piene, i tassi di interesse applicati dalle banche pesano poco. Conclusione: la Bce può pensare che gli aumenti dei tassi debbano essere ancora maggiori per far abbassare le penne alle imprese.
È presto per capire quale delle due linee vincerà. Tuttavia, fuori dall’ottica ristretta della banca centrale, la corsa dei profitti dice, più in generale, un’altra cosa: le imprese hanno acquisito, a scapito dei consumatori, margini sufficienti ad assorbire un recupero salariale del potere d’acquisto che, del resto, proteggerebbe anche i loro mercati. Quindi, se parte la tanto temuta spirale, sarà bene cominciare a guardare i profitti, prima dei salari.
Maurizio Ricci