L’Italia è di fronte al nodo delle transizioni, che sono numerose, intrecciate tra loro, e stanno mettendo in discussione parametri e assetti che fino a poco tempo fa sembravano stabili. La transizione ecologica e ambientale, la più profonda e incidente per le ricadute nel campo energetico, ma anche quella digitale, quella demografica, quella produttiva. Un pericolo reale, che le relazioni industriali stanno cercando di affrontare, pur con grande difficoltà. Non c’è una vera crisi del sistema contrattuale, ma gli attori sociali non sembrano in grado di affrontare questo snodo centrale per il futuro del paese. Si muovono sulla spinta delle problematiche che si pongono con maggiore urgenza, ma manca un piano efficiente di intervento.
Gran parte di queste difficoltà viene dalla carenza di un patto generale tra governo e attori sociali sul tema del lavoro e più in generale sull’assetto della produzione. Lo si è rincorso a lungo, è stato oggetto di dispute, qualcuno si è esposto più degli altri, ma alla fine non se ne è fatto nulla, anzi è stato messo in dubbio anche l’ultimo accordo tra sindacati e Confindustria, quel Patto della fabbrica, che pure aveva degli spunti e delle aperture molto interessanti, che però non sono mai riusciti a uscire dal limbo dei buoni propositi. Adesso questa carenza pesa, perché proprio l’ampiezza dei problemi che il paese si trova ad affrontare richiederebbero una visione olistica, ad ampio raggio, capace di sistematizzare le richieste che vengono dai settori per farle diventare una politica nazionale a tutto tondo.
Non c’è un patto generale, ma ci sono i contratti di settore, che sono tanti e ben fatti. Risolvono solo i problemi più prossimi e urgenti e cercano di farlo con lungimiranza e capacità di intervento, ma restano all’interno di un perimetro ristretto. Servirebbe una vera contaminazione, in grado di vivificare l’intero corpo delle relazioni industriali. I responsabili delle relazioni industriali dei diversi settori conoscono quello che fanno gli altri, ma è difficile che ciascuno acquisisca quanto altri hanno già realizzato. Non mancano comunque gli esempi virtuosi. Come l’iniziativa che hanno in programma due categorie della Cgil, la Fiom e la Filctem, metalmeccanici e chimici, che lunedì 27 si riuniranno per confrontarsi sulle scelte che devono essere prese in materia di politica industriale nei loro settori. Due categorie per lo più lontane tra loro, quanto meno diffidenti l’una contro l’altra, che però hanno capito che assieme possono fare la differenza.
L’unica cosa su cui tutti sono d’accordo è che al centro di questo necessario nuovo corso di relazioni industriali ci sia la partecipazione, la capacità di decidere assieme i passi da compiere in questa azione di rinnovamento. Nessuna parte da sola è in grado di prevedere cosa accadrà e come sia necessario intervenire, solo assieme forse è possibile capire come muoversi. Nessuno mette in discussione il principio, ma realizzare questa unità d’azione è molto difficile. Pesano le resistenze, le differenze culturali, le tradizionali ritrosie, che è molto complesso rimuovere. Ma una nuova cultura del lavoro, perché questo è quanto necessita, non può nascere che dallo sforzo comune delle due parti in campo.
C’è grande condivisione sul fatto che al centro di queste nuove regole debba esserci la persona. La grande trasformazione avvenuta nel mondo del lavoro, accelerata, ma solo accelerata, dalla pandemia, è stata proprio l’acquisizione di questa centralità. I bisogni della persona dovranno essere al centro dell’attenzione della contrattazione: è al soddisfacimento delle richieste personali che dovrà essere diretta l’azione delle parti sociali. Le revisioni da operare nel campo degli orari, dell’organizzazione del lavoro, dovranno guardare innanzitutto alle esigenze del singolo, sapendo però coniugare la dimensione individuale con quella collettiva. Si tratterà di saltare spesso regole e atteggiamenti consolidati, ma l’esperienza di questi ultimi due anni indica l’inderogabilità di questo assunto.
Non si tratta solo di realizzare un migliore bilanciamento tra le esigenze di vita e di lavoro, si dovrà prestare la massima attenzione per comprendere le necessità che si vanno imponendo e piegare la realtà della produzione e dell’organizzazione del lavoro a queste realtà.
Al centro di ogni azione dovrà esserci la formazione. Le transizioni chiedono soprattutto la disponibilità di nuove e complesse competenze, che il sistema formativo non è attualmente in grado di fornire. Tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che è indispensabile un progetto compiuto di formazione, mirato sulle esigenze delle imprese e sui desideri di realizzazione delle persone. Anche questa è un’impresa non facile da realizzare, perché la realtà è già fortemente deficitaria, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro mostra lacune immense che non si riesce a colmare. Il concetto di impiegabilità stenta ad avere diritto di cittadinanza all’interno delle relazioni industriali, ma è questa la trasformazione ormai ineluttabile. Lo stesso per quanto si riferisce all’indispensabile iniezione di managerialità di cui le imprese hanno bisogno, della quale non tutti sono consapevoli, specie all’interno del mondo imprenditoriale.
Gli strumenti necessari per realizzare queste trasformazioni dovranno essere per lo più inventati ex novo. Qualcuno già c’è, come lo Statuto della persona che Enel e i sindacati di settore hanno messo a punto l’anno passato, ma anche il contratto di espansione partito dalle Tlc e poi approdato in altri settori. E ancora le diverse espressioni della bilateralità, che sta mostrando, in verità da anni, la sua profonda efficacia. Ma altri se ne devono aggiungere per formare quella cassetta degli attrezzi indispensabile per la gestione delle rinnovate relazioni industriali. Il cammino è lungo, forse non è nemmeno iniziato davvero.
Massimo Mascini