Operai, infermieri, dirigenti, studenti, funzionari pubblici uniti sotto le bandiere delle molteplici sigle sindacali francesi, per la prima volta tutte assieme dopo decenni di divisioni, contro la proposta di riforma delle pensioni del presidente Macron.
E l’iniziativa cresce, evidenziando una significativa ripresa della capacità di mobilitazione del sindacalismo transalpino, i cui livelli di rappresentatività non sono mai stati alti, con la CGT, il sindacato della “gauche” francese, che dichiara la cifra di 2,8 milioni di partecipanti all’ultima manifestazione dell’11 febbraio, con scioperi che hanno bloccato fabbriche e servizi.
E ciò avviene mentre in Italia il sindacalismo “storico” appare sempre più ininfluente rispetto alle scelte di politica economica e sociale, anche a causa di una divisione tra Cgil, Cisl e Uil sul giudizio relativo ai provvedimenti economici del governo, che ripropone un sistema sindacale che sembra uscire dal cuore della metà del ‘900, con la vecchia dialettica tra conflitto e collaborazione, fuori dagli schemi del sindacalismo europeo di matrice riformista. E così, la Cisl da un lato accetta le scelte economiche di un governo che non privilegiano certamente il mondo del lavoro e le tutele sociali, si pensi alla flat tax e alla cancellazione del reddito di cittadinanza, la Cgil dall’altro, rilancia la contestazione, ma senza adeguati livelli conflittuali, con una inedita posizione di sostegno da parte della Uil, che appare immemore della cultura riformista del sindacalismo italiano, che da Bruno Buozzi si dipana a Giorgio Benvenuto e al suo modello di relazioni industriali dei passati anni Ottanta, esemplificato dallo slogan “Dall’antagonismo al protagonismo”.
Il futuro del sindacalismo italiano, nel mentre categorie agguerrite come i benzinai hanno imposto al governo di rivedere alcuni provvedimenti, mostrando ancor di più l’ininfluenza delle tre centrali – testimoniata, tra l’altro, dalla scarsa considerazione che esse hanno ormai, negli studi giuslavoristici e sociologici – sembra quello della parabola descritta da Aris Accornero più di trenta anni or sono, con la costituzione di due poli: uno conflittuale, con Cgil e Uil, l’altro della Cisl con i sindacati autonomi.
E’ evidente che non sono i tempi, purtroppo, in cui leader carismatici come Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin teorizzavano e praticavano concretamente il modello del sindacato “soggetto politico”, nel pluralismo culturale e politico delle rispettive organizzazioni sindacali, imponendo per tutto il decennio Settanta e Ottanta, anche dopo il “Decreto di San Valentino” nel 1984, a governi e parlamenti il confronto con i rappresentanti del mondo del lavoro sulla politica economica nazionale, né della “concertazione dell’emergenza” che nel decennio ’90 del secolo trascorso ha garantito la tenuta del “Sistema-Paese”. Ma certamente non si sarebbe mai preventivata la scomparsa del sindacato italiano dalla scena pubblica, specie in presenza del drammatico scenario geopolitico generato dall’invasione russa in Ucraina, con le pesanti conseguenze sociali, in primo luogo per i lavoratori e i pensionati, già alle prese con livelli retributivi e previdenziali che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa e che l’aumento dell’inflazione provocata dal combinato disposto dell’incremento dei prezzi dei prodotti energetici e di quelli dei tassi voluto dalla Banca Centrale Europea, con l’allargamento dell’area delle povertà, soprattutto nel Mezzogiorno.
La prospettiva sembra quella di un sindacalismo – sul quale pesano, purtroppo, pigrizie e ritardi culturali – relegato alla funzione di erogatore di servizi, come ha scritto il direttore del Diario del Lavoro Massimo Mascini – burocratico e verboso, ma senza capacità contrattuale con le istituzioni e i datori di lavoro.
Maurizio Ballistreri, Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Messina