La Filctem, la categoria Cgil dell’industria che riunisce chimici, energia, tessili, va a congresso la prossima settimana. In questa intervista con il segretario generale Marco Falcinelli facciamo il punto su quale richieste sono arrivate al sindacato dalle assemblee nei luoghi di lavoro, ma anche sullo stato dei rapporti con le imprese, col governo, con la politica e con le altre confederazioni.
Falcinelli, questo congresso è anche la prima vera occasione di incontro “fisico” con gli iscritti, dopo lo stop della pandemia. Avete fatto moltissime assemblee in tutta Italia, avete incontrato migliaia di lavoratori, avete ascoltato dal vivo cosa pensa la base del sindacato, cosa si aspetta, cosa vi chiede. Mi fa un riassunto?
Ovviamente dalle assemblee emergono innanzi tutto i problemi quotidiani delle persone: i costi per le famiglie, le bollette, l’inflazione, i salari bassi. Molto sentito e discusso anche il tema pensioni, e soprattutto il rapporto tra fiscalità e retribuzioni, argomento direi centrale. Ma nelle assemblee si è parlato anche del conflitto in Ucraina, della pace, della necessità di trovare una via di uscita.
Temi generali, ma nello specifico al sindacato cosa ci si aspetta? C’è anche una richiesta di mobilitazione, di sciopero, che arriva dalla base?
C’è sicuramente una richiesta di maggiore protagonismo da parte del sindacato. Che poi si traduca in richiesta di sciopero e mobilitazione dipende molto dalle situazioni specifiche, chiaro che chi vive sulla propria pelle le crisi è più sensibile rispetto a chi non teme di perdere il lavoro.
Lei ha parlato di salari bassi, ma proprio voi, come settore, avete portato a casa una stagione contrattuale magnifica, con una serie di contratti chiusi senza un’ora di sciopero e con aumenti consistenti. Vi viene riconosciuto questo successo dai lavoratori?
Ci viene riconosciuto, certo. Abbiamo chiuso benissimo sei contratti, speriamo a breve di chiudere bene anche il settimo, quello del vetro. Tutti rinnovati con incrementi salariali che, sommando Tec e Tem, arrivano a un aumento superiore al 9%, coprendo praticamente l’inflazione. Naturalmente parlo dell’inflazione ai livelli di quando abbiamo presentato le piattaforme, oggi è ulteriormente aumentata e di questo dovremo tenere conto per i contratti del 2023. Ma per il 2022, come ho detto, i nostri lavoratori sono stati sostanzialmente protetti dall’aumento dei prezzi. Poi, è chiaro che non basta: per risolvere il nodo dei bassi salari italiani ci vuole altro.
Cosa, per esempio?
Il fisco soprattutto. Si è parlato molto di taglio del cuneo fiscale, ma alla fine non è stato prodotto un gran risultato, sia in termini di platea coinvolta sia in termini di risultato nelle buste paga. Per risolvere davvero il problema sarebbe necessario aprire una discussione vera sulla riforma fiscale complessiva.
E qui si torna alla richiesta di maggiore protagonismo del sindacato?
Continuo a pensare che vada aperta innanzi tutto una discussione con la Confindustria. Noi da tempo sosteniamo la necessità di un patto a tre, come nel 1993. Lo chiedevamo da tempo, poi c’è stata la pandemia, è accaduto di tutto, e non so dire se oggi ci siano le condizioni per un accordo triangolare. Ma è certo che un tavolo con la Confindustria su salari e contratti dobbiamo aprirlo. Altrimenti il rischio è lasciare la Confindustria nelle mani di un governo che dice “non disturbare chi produce”, con risultati molto negativi. Si rischia di generare un conflitto sociale, e anche di complicare i rapporti con le aziende. Ma naturalmente non sono le categorie a decidere, questi sono compiti delle confederazioni.
Cosa si dovrebbe discutere con la Confindustria?
Va rivisto il patto della fabbrica, innanzi tutto. L’Ipca non funziona più come riferimento per gli aumenti salariali rispetto all’inflazione, non con questi prezzi dell’energia. Noi nei nostri contratti infatti lo affermiamo. Ma rimettere in discussione quell’accordo spetta alle confederazioni. Poi penso occorra un tavolo generale di confronto sui grandi processi di cambiamento dell’industria, sull’organizzazione del lavoro, sul rapporto tra salario e orario di lavoro: sta cambiando tutto, e tutto ancora di più cambierà in prospettiva. Ci sono insomma molti argomenti sui quali lavorare per un grande accordo quadro con Confindustria.
Ma non mi pare tiri aria di accordi, né col governo né con le imprese. Sembra tutto abbastanza fermo, immobile, come mai?
Innanzi tutto perché ci sono difficolta nei rapporti unitari: e questo è veramente un grande problema. Non riusciamo a costruire iniziative unitarie nemmeno partendo da piattaforme unitarie, come è palese nel confronto col governo: dove si parte appunto da una piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil, ma poi si arriva su posizioni diverse fra le confederazioni. Dunque, per una azione che porti risultati, va in primo luogo recuperato il rapporto unitario: diversamente è complicato anche ragionare di scioperi e mobilitazioni. Se chiami la gente allo sciopero, poi i risultati devono arrivare, ma se manca un tavolo unitario su cui discutere, i risultati non possono esserci.
Il governo stesso, tuttavia, non sembra avere reale intenzione di discutere col sindacato.
Esatto: questo governo finge di volere discutere con noi, in realtà si limita a convocare riunioni pletoriche con dozzine di sigle e poi va avanti per conto suo. Non c’è alcuna volontà politica di un confronto vero.
Anche la sinistra sembra sempre più distante dal sindacato. Si sta allargando un solco tra voi e la rappresentanza politica?
La politica non è, e non deve essere, una cosa distante da noi: ce ne dovremmo occupare e in modo importante. Il rapporto tra politica e sindacato deve essere costruttivo, operando ciascuno nella sua autonomia: ma qualcuno che porti in parlamento le nostre istanze è necessario. Certo non lo fa la destra, e oggi non lo fa più nemmeno la sinistra. Per questo dico che dobbiamo stare dentro la discussione politica: è un terreno che non può vederci attori passivi, dobbiamo essere protagonisti. Perché se è vero che una sinistra forte senza un radicamento sociale non esiste, è vero anche il contrario. La rappresentanza, l’estensione erga omnes dei contratti, la carta dei diritti: chi ci va in parlamento a discutere le nostre proposte? O ci va la politica o ci andiamo noi direttamente? Non è previsto, a meno di non diventare una cosa diversa. E ancora: noi diciamo che i governi si giudicano dai fatti, ma sappiamo che i governi non sono tutti uguali. E se c’è da ricostruire un fronte progressista, per dare la possibilità al paese di tornare ad avere un governo di centro sinistra, noi non possiamo chiamarci fuori. Poi anche la sinistra, e va detto, ha fatto grossi errori nel campo del lavoro: penso al Jobs Act e all’abolizione dell’articolo 18, provvedimenti che in teoria avrebbero dovuto governare la flessibilità, e invece hanno solo creato una fortissima precarietà.
Temi che stanno adesso tornando in scena nell’ambito del congresso del Pd, che peraltro si svolge in parallelo con quello della Cgil: nel dibattito tra i candidati alla segreteria del partito emerge la proposta di cancellare il Jobs Act e di varare il salario minimo. Vi soddisfano come soluzioni?
Sulla cancellazione del Jobs Act non posso che essere d’accordo. Quanto al salario minimo: va maneggiato con cautela, o si rischia di smantellare la contrattazione e rendere inutili i contratti nazionali. Ma non possiamo ignorare che esistono alcuni milioni di lavoratori i quali non ricevono un salario decoroso per vivere. Noi avevamo apprezzato una proposta del ministro Andrea Orlando, che prevedeva di basarsi sul trattamento salariale complessivo. Siamo invece contrari all’ipotesi di prendere come riferimento i minimi tabellari, soluzione che avrebbe effetti negativi. Però non è che i partiti di sinistra possano limitarsi a questo: servirebbe più attenzione in generale su temi come la tenuta del mercato del lavoro e la precarietà. Quelli sono i terreni su cui la sinistra deve assumersi responsabilità.
Perché si parla cosi poco del congresso Cgil? Forse pesa il fatto che non ci sia un cambio di leadership in vista? Eppure, è il congresso del maggiore sindacato italiano.
Il nostro ultimo congresso era stato molto sotto i riflettori proprio perché c’era la competizione sulla leadership. Oggi non c’è in vista un ricambio, il documento della maggioranza, primo firmatario il nostro segretario generale Maurizio Landini, ha ottenuto il 99% dei voti. Non c’è competizione, e quindi restiamo in ombra rispetto ai media. Ma mi permetta di dire che, da parte dei media, è una sottovalutazione sbagliata: la discussione nel congresso della Cgil è qualcosa che riguarda il paese nel suo complesso, nei nostri documenti c’è una elaborazione su temi fondamentali e certo non avulsi dalla realtà in cui tutti viviamo. Ci sono proposte che riguardano la contrattazione, le politiche industriali, questioni chiave dalle quali dipende lo sviluppo del paese. Meriterebbe più attenzione.
Forse c’è anche un problema vostro di comunicazione. Forse vi siete un po’ chiusi?
Si, forse è anche un po’ colpa nostra che non ci facciamo abbastanza capire, che non sappiamo portare all’esterno le molte proposte che stanno emergendo dai nostri congressi. E forse ci siamo anche un po’ chiusi in noi stessi: da un lato viviamo la frattura con la rappresentanza politica, dall’altro quella sui rapporti unitari. Ma l’autosufficienza non paga. Faccio un esempio: quando i rapporti unitari funzionavano, al solo annuncio dell’autonomia differenziata cosi come l’ha concepita il governo, ci sarebbe stata la rivolta dei sindacati, tutti. Oggi invece, a parte la dura presa di posizione della Cgil, anche attraverso le dichiarazioni del nostro segretario, nulla sembra arrivare da altri.
Nunzia Penelope