Da più parti si sta acquisendo consapevolezza della complessità e problematicità della situazione salariale nel nostro Paese. Tuttavia il dibattito rischia di essere frammentario e non capace di considerare, con attenzione, tutti gli aspetti della questione. Proviamo a procedere con ordine, anche se in modo obbligatoriamente schematico.
Primo tema, i salari sono troppo bassi. Tale affermazione è senz’altro vera, ma andrebbe meglio chiarita. Nel comparto industriale e nella pubblica amministrazione si applicano contratti diversi. I primi rinnovati secondo una certa cadenza fisiologica, i secondi invece lamentano anni e anni di mancato rinnovo, con la conseguenza di una compressione dei salari nominali. Quindi la prima questione da affrontare è la regolarità dei rinnovi contrattuali. La sana contrattazione deve partire da questo semplice assunto “pacta sunt servanda”, vale per il rapporto di lavoro privatistico e vale, vieppiù, per quello pubblico.
In secondo luogo il prelievo fiscale: in questo caso, come ben dimostrato dalla recente analisi, della FIM-CISL, sulla situazione retributiva dei metalmeccanici, il rischio è che una distorta curva dell’IRPEF penalizzi i salari medi, quelli compresi nella fascia 30.000 e 50.000 euro lordi.
In questo caso ogni aumento contrattuale viene decurtato di circa il 40%, con rilevanti impatti sul reddito netto (quello spendibile). Lo stesso non avviene per i salari delle categorie professionali più basse.
Un terzo tema è ovviamente quello della produttività. Se si fa attenzione e si svolge una analisi accurata delle retribuzioni “di fatto”, non solo quelle contrattuali, si scoprirà che esiste già una differenza territoriale, che sconta un diverso tasso di produttività per addetto. Ciò, anche determinato da una differente composizione professionale nelle diverse aziende sul territorio. Questo è vero per alcuni settori, ed è più vero dove più forte è la contrattazione di prossimità (l’unica in grado di percepire i differenti tassi di produttività a cui naturalmente sono collegate le retribuzioni). Ovviamente tale osservazione non vale per la generalità del Pubblico Impiego, e non è un caso che, in questo comparto, la polemica sulle c.d. “gabbie salariali” scivola nella solita, quanto sterile, contrapposizione ideologica tra le diverse posizioni, senza invece una ricerca di sintesi vera.
Last but not least: la questione della salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni, senza per questo scadere in una effimera rincorsa tra prezzi e salari, col rischio di aggiungere all’inflazione da offerta (in principal modo materie prime) una inflazione da domanda nominale (Tarantelli insegna). Per ora questo pericolo pare scongiurato ma oggettivamente il tema si pone. Come si dovrebbe comportare una politica salariale coerente con l’obiettivo del rientro del tasso d’inflazione, scontando un tendenziale, quanto auspicabile, decremento del prezzo delle materie prime? In un recente dibattito per la presentazione dell’ottimo libro di Gaetano Sateriale “Profondo lago” sull’esperienza della contrattazione nel Petrolchimico di Ferrara, l’intervento di Sergio Cofferati, ex segretario generale della CGIL, lancia, nemmeno tanto velatamente, una giustissima “provocazione” all’attuale leadership sindacale e datoriale “Non è tempo per una nuova politica dei redditi?” La domanda posta a mio parere in modo corretto, come pure la fase in cui è stata collocata (nella quale va “messo a terra” tutto il potenziale del PNRR) non ha che una risposta: la stessa data da Cofferati “un sindacato che non si limita ad osservare i processi ma che intende guidarli, un sindacato riformista deve (ha l’obbligo) di avanzare una nuova proposta di politica dei redditi ai suoi interlocutori: la controparte datoriale e il governo”. Tale proposta deve, a mio parere, contenere la previsione di un tasso programmato di rientro dell’inflazione, che non può essere il semplice calcolo dell’IPCA, al netto degli effetti dello shock energetico. Tale indice, concordato tra le parti, deve essere una percentuale, decrescente, di riferimento a cui agganciare i rinnovi della parte salariale dei contratti.
Questa percentuale, come insegnava Tarantelli, indicherà ai vari soggetti, operanti sui mercati concorrenziali, quale è il tasso di inflazione atteso dai principali operatori economici. In tal modo, nel periodo di applicazione dei contratti collettivi, si indicherà chiaramente un sentiero di rientro dell’inflazione, riducendo i rischi di una recessione causata dalla contrazione dei consumi.
Si tratta di rovesciare un consolidato paradigma contrattuale “le prime tranche di incremento più basse e le ultime più alte”. Serve, per questo periodo, fare l’esatto contrario, ben sapendo (come ben sa chi fa contrattazione) che questo determina dei costi di trascinamento più alti, ma in questo modo si mitigherebbe, nel tempo, l’effetto di trasferimento sui prezzi finali.
Ovviamente questa “moderazione salariale” richiede un deciso e non più rinviabile intervento sul prelievo fiscale del lavoro dipendente e soprattutto, va detto con la massima chiarezza, a tutela delle retribuzioni medie, ossia del loro potere di acquisto collegato alla retribuzione netta. Qui il governo ha molte responsabilità e certo con il recente intervento fiscale (flat tax) non va nella giusta direzione.
Infine due temi vanno collocati in questo “Scambio politico”. Il primo riguarda il tema degli investimenti da PNRR che devono essere implementati il più velocemente possibile, se si vuole impattare sul tasso di produttività, e per la stessa ragione, le necessarie riforme chieste dall’UE quali quelle riferite ad una più ampia concorrenza in diversi settori economici del nostro Paese. Anche in questo caso però il Governo sembra andare nella direzione opposta, si veda la recente proposta di applicazione delle “tariffe minime professionali”.
Il secondo tema riguarda la necessità di dare, nella struttura della contrattazione, una decisa sterzata verso l’irrobustimento della “negoziazione di prossimità” l’unica in grado davvero di cogliere (fermo restando le tutele universali dei contratti collettivi nazionali) le evidenti differenze territoriali.
Luigi Marelli