Nel Giorno della Memoria due eventi mi hanno particolarmente colpito, tanto da indurmi a riflettere prima di scrivere. Ho seguito la lunga intervista televisiva di Liliana Segre nel corso della quale la senatrice a vita, vero e proprio monumento vivente della Memoria, ha ricordato, con una lucidità sorprendente, il calvario suo e della sua famiglia dal 1938 (l’anno delle leggi razziali) al 1945 quando fu liberata da Auschwitz Birkenau e rientrò affranta nel corpo e nello spirito in Italia.
Di quel racconto, sempre preciso e sereno, sono rimasto impressionato dalla storia di una bambina che frequenta la scuola elementare che, nel 1938, scopre di essere cacciata dal suo mondo, per un motivo che le risulta incomprensibile. In sostanza impara di sé una caratteristica che ignorava: quella di essere ebrea. Segre infatti ha spiegato che la sua famiglia non era religiosa, che conduceva una vita normale come tanti “ariani” (per inciso: io sono nato nel 1941 e quando molti anni dopo mi fu richiesto di produrre un certificato di nascita, mi accorsi anch’io, con sorpresa, di essere “ariano”, anche se non me ne ero mai accorto). Uno zio di Segre era addirittura fascista, come lo erano tanti suoi correligionari.
La senatrice ha saputo rendere con parole semplici e precise l’isolamento in cui venne a trovarsi nel giro di qualche giorno, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali, cacciata da scuola, evitata dalle amiche (per fortuna non da tutte) senza sentirsi colpevole di nulla e senza riuscire a spiegarsi perché il mondo a cui era appartenuta gli fosse caduto addosso. Ed è a questo punto che sono andato a rileggere un brano del discorso di Sergio Mattarella, in quel Giorno della Memoria. “La Shoah – ha sottolineato il presidente – fu un unicum nella storia dell’uomo, pur segnata da sempre da barbarie, guerre, stragi ed eccidi”. Ma ha subito aggiunto: “La parte maggiore della responsabilità delle leggi e della politica razzista, in Germania e in Italia va attribuita ai capi dei due regimi, Hitler e Mussolini”.
Ma il terribile meccanismo di distruzione non si sarebbe messo in moto se non avesse goduto di un consenso, a volte tacito ma comunque diffuso, nella popolazione. Un consenso con gradi e motivazioni diversi: l’adesione incondizionata, la paura, ma anche, e spesso, il conformismo e quell’orribile apatia morale costituita dall’indifferenza. Poche e isolate furono le voci e le figure illuminate che, in Germania e in Italia, parlarono per condannare il razzismo e la sua letale deriva”. Anche dal Vaticano non venne mai una condanna esplicita delle leggi razziali, anche vi furono esplicite dichiarazioni di Pio XI e di importanti prelati, tra cui il Cardinale Schuster, arcivescovo di Milano (che poi svolse un ruolo importante nei giorni della Liberazione nell’aprile del 1945) di condanna dell’antisemitismo e della dottrina delle razze superiori.
Ma che effetti avrebbe avuto una netta presa di distanza da quelle leggi sulla firma apposta dal Sovrano? Non si dimentichi che gli storici tendono a negare il carattere totalitario della dittatura fascista perché, a differenza della Germania in cui vigeva il Fuhrerprincip, in Italia erano presenti almeno tre poteri: il Fascismo, il Vaticano, la Monarchia. E queste differenze si manifestarono ben presto, non appena gli Alleati misero piede sul bagnasciuga siciliano. Nell’Europa di quegli anni vi furono altri due regimi fascisti, il Spagna e in Portogallo che non si esposero nella persecuzione degli ebrei (come fece invece la Francia di Vichy). Anzi in Portogallo trovarono rifugio 100mila ebrei. Scoppiata le Seconda guerra mondiale le Armate di invasione tedesche si portarono appresso le politiche antisemite e disseminarono i territori occupati di campi di sterminio, verso i quali funzionava un sistema di trasporti efficiente e ininterrotto (abbiamo visto Liliana Segre presenziare, insieme a tanti giovani, alla cerimonia davanti al binario sotterraneo della stazione di Milano dove partivano i treni carichi di ebrei, zingari, avversari politici, omosessuali.
Ma vi furono Paesi che, anche sotto il tallone armato dei nazisti, non persero la loro dignità. Nella Danimarca occupata dai nazisti, la resistenza riuscì ad evacuare, con l’aiuto dei civili, 8mila ebrei in Svezia. Anche i danesi deportati vennero difesi e la grande maggioranza ebbe salva la vita. Le vittime censite furono 120. Ciò avvenne anche perché i reali diedero l’esempio annunciando ai comandanti tedeschi che anche loro si sarebbero cucita addosso la stella gialla come i loro sudditi. Certo, le condizioni erano difficilissime, ma non era del tutto impossibile stare dalla parte giusta, quando l’esempio veniva dall’alto, da chi aveva ancora l’autorità per poter resistere ai soprusi. Mattarella ha dunque colto nel segno. Oltre alla paura, all’indifferenza, il capo dello Stato ha evocato l’esistenza di un “consenso a volte tacito ma comunque diffuso, nella popolazione”.
La “banalità del Male” non può avere una diversa spiegazione. Ecco perché bisognerebbe riflettere sul Giorno della Memoria come se l’Olocausto fosse stato, nella storia dell’umanità, un episodio aperto e chiuso col nazifascismo. La Shoah è un peccato originale delle popolazioni che la praticarono e la tollerarono. Una colpa che non si cancellerà mai dal loro dna “nei secoli dei secoli”, anche quando – come ha detto Liliana Segre – quella tragedia troverà posto solo in una riga dei libri di Storia. L’Olocausto – se è consentita una metafora – rappresentò una sorta di organizzazione tayloristica del genocidio (i responsabili della “macchina” dello sterminio si compiacevano dell’efficienza del loro lavoro); fu il passaggio alla industrializzazione di una pratica che per secoli era stata affidata all’artigianato delle persecuzioni, nei ghetti, nei pogrom, nei massacri, negli autodafé, nelle conversioni forzate, nelle esecuzioni sommarie, negli abusi e nelle devastazioni dei villaggi disseminati nell’Europa Centrale. Su quelle radici, molto profonde e ben piantate nelle contrade del Vecchio Continente, è cresciuta, nell’odio, la pianta rigogliosa del Male Assoluto.
Giuliano Cazzola