Mario Mantovani, il presidente di Manageritalia, l’organizzazione che raccoglie i manager del terziario, diffida delle previsioni economiche. Sono troppe le variabili, pensa, ogni indicazione sarebbe sbagliata. Ma qualche certezza c’è. Le imprese managerializzate, quelle che in questi anni si sono strutturate, a suo avviso possono crescere. Tra le altre, quelle che si occupano delle trasformazioni del lavoro, una tendenza molto interessante che influenzerà fortemente la crescita futura. Ma è necessario prima di tutto affrontare e risolvere il problema della carenza di competenze, il che potrà avvenire solo con una forte iniezione di formazione e con una robusta crescita delle retribuzioni.
Mantovani, che previsioni fa il mondo dei manager per il 2023?
L’unica certezza è che si deve diffidare delle previsioni economiche per quest’anno, perché saranno certamente sbagliate. Ci sono fattori di lungo termine e globali che possono cambiare completamente il segno delle variabili economiche. Il Pil, l’occupazione, l’inflazione, i prezzi petroliferi. Fare previsioni è inutile. Però ci sono una serie di trend sottostanti, destinati ad avere rilevanza.
Quali sono queste indicazioni?
Nel settore terziario, per le imprese managerializzate, ci sono molti segnali positivi. Sicuramente il rimbalzo che abbiamo avuto l’anno passato era dovuto ai numeri molto cattivi che abbiamo avuto durante la pandemia.
Il vostro settore è stato molto colpito dalla pandemia.
Sì, ma in maniera asimmetrica, alla fine sono state colpite le aziende più deboli, le più piccole, quelle meno strutturate. Che adesso sono in grado di ripartire, magari non con gli stessi soggetti. Certo, lo possono fare le imprese più grandi, più solide, quelle che hanno potuto strutturarsi, nella distribuzione, nel commercio elettronico, che sta continuando a crescere, nei centri di servizi alle imprese, nell’informatica.
Quindi degli spazi interessanti continuano ad aprirsi.
C’è stato un dato che mi ha molto colpito. Un settore, quello delle aziende che si occupano direttamente di risorse umane, che fanno selezioni, organizzazione, le agenzie del lavoro. Su un indice pari a 100 nel 2015 hanno chiuso nel 2022 a 178. La crescita in questi anni è stata del 78%.
E questo in anni difficili, molto difficili.
Sì, è il segnale che, anche se certamente il trend più importante è quello degli investimenti, la digitalizzazione, le trasformazioni del lavoro sono anche esse un trend da cui può dipendere realmente il risultato qualitativo oltre che quantitativo della crescita economica. Oggi poi si è verificato un fenomeno al quale non eravamo abituati, almeno non in quantità cosi intense, e cioè la carenza di competenze. Il mismatch tra domanda e offerta di lavoro c’è sempre stato, ma si è pericolosamente accelerato.
Anche a causa delle transizioni che richiedono competenze nuove, a volte introvabili.
Ma il problema vero è che la struttura del lavoro, anche all’interno delle aziende, è rimasta immutata, non c’è mai stato un adeguamento a questo tipo di problematiche. E quindi il mismatch è cresciuto. Ma si è anche aggravato, perché non si verifica più solo per le competenze specialistiche, oggi c’è una forte carenza di personale, anche quello semi professionalizzato, a tutti i livelli. Ci sono alberghi che non riaprono perché non c’è personale adeguato. Adesso c’è un gap di 200mila persone, che è destinato a crescere, ma dipende anche molto dalla demografia.
Rientra in questo quadro il fenomeno delle grandi dimissioni?
Io sono convinto che questo sia un fenomeno sovrastimato, quanto meno nell’interpretazione. C’è qualche numero significativo, ma per lo più nei nostri settori non è cambiato molto. È successo che durante la pandemia le persone che hanno visto chiudere le loro aziende hanno cercato altro da fare, e adesso non tornano indietro. E poi in un mercato ingessato, che però adesso presenta una domanda maggiore, è inevitabile che le persone cambino lavoro. Ma c’è anche un altro fenomeno da non sottovalutare.
Quale fenomeno?
Sta accadendo che la ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti sta cominciando ad affluire alle nuove generazioni, che hanno disponibilità di rendita molto superiori al passato. Oggi le entrate da rendita, banalmente l’affitto di qualche appartamento o di un B&B, stanno crescendo. E quindi si può respingere l’offerta di un lavoro malpagato, perché è questa l’altra grande anomalia italiana: che negli ultimi 20 anni non abbiamo avuto crescita delle retribuzioni, mentre in altri paesi paragonabili al nostro ci sono stati aumenti del 30%. In Italia il reddito di lavoro, sempre in questi 20 anni, è rimasto stabile, quindi in termini reali si è ridotto: è evidente allora che una persona a 50 anni pensi di ridurre significativamente la propria attività.
Quindi cosa accadrà nel nostro paese?
Penso che abbiamo di fronte un periodo di domanda di lavoro molto forte, senza che sia possibile trovare una risposta. Per motivi diversi, perché mancano le competenze, manca la necessità, mancano gli incroci settoriali e territoriali. La strada da percorrere è allora solo una, un forte aumento di produttività, accompagnato da un forte aumento retributivo. I lavoratori dovranno essere pagati di più, ma essere più produttivi.
Le relazioni industriali possono essere importanti in questo divenire?
Sono assolutamente fondamentali. È chiaro che deve partire dalle aziende un meccanismo che possa valorizzare questi elementi, un meccanismo non solo retributivo, anche formativo. Un’azienda che conosce gli strumenti a disposizione, che sa dove vuole arrivare, ha la possibilità di attivarli, anche in maniera focalizzata. Se invece l’azienda si tiene distante, separata, se pensa di trovare come una volta figure formate dalle università o dagli istituti superiori e pensa di metterle in una vecchia organizzazione, non riuscirà mai a ottenere un risultato. Serve una reciproca maturità, mentre purtroppo nei tavoli di relazioni industriali si continua a parlare sempre degli stessi argomenti. È chiaro che in un periodo di inflazione così alta non si può non parlare di retribuzione, ma è necessario guardare alla retribuzione in una maniera più ampia, includere nel welfare anche la formazione sarebbe una necessità.
Ma il legame tra la crescita retributiva l’aumento della produttività dovrebbe essere sempre forte.
Sì, non è possibile pensare a un elemento retributivo che non corrisponda a una crescita della produttività. Ma questo è il compito delle relazioni industriali. Chi fa organizzazione deve saper valorizzare le risorse, farle crescere. Certo a fronte di un mercato che lo consente, perché se è calante non ci sono reazioni. Ma non è questa la nostra situazione.
Massimo Mascini