“Lo Stato deve fare le cose utili, l’individuo le cose belle” diceva Oscar Wilde. E mentre gli scenari economici e sociali continuano a mutare, al fondamento dell’utilità si cerca invece di sostituire quello dello Stato “essenziale” o “assistenziale”. Il primo richiama in servizio il liberismo, il secondo prospera sulla paura. Stato essenziale o Stato assistenziale? Nessuno dei due se vogliamo mantenere un passo utile alla crescita civile ed economica, meglio uno Stato efficace.
Di recente, la riflessione su quale strada prendere dopo la crisi del 2008 e la pandemia non poteva non riportare in primo piano le suggestioni liberiste come se si trattasse di ricostruire un movimento di liberazione dall’oscurantismo di una continua crisi politica e da una paralizzante presenza dello Stato sul piano economico e sociale.
Eppure, dovremmo evitare di dimenticare i guasti della precedente stagione liberista: ha caratterizzato una globalizzazione squilibrata, ha sottomesso inutilmente la politica ai grandi poteri finanziari e tecnologici, ha snaturato il concetto di sviluppo creando grandi diseguaglianze d’ogni tipo. E potremmo continuare. Insomma, l’idea che lo Stato debba nuovamente cedere il passo al privato deve fare i conti con un fallimento del quale francamente non può esserci alcuna nostalgia e che, comunque, non si può ignorare.
Eppure, il riemergere della “provocazione” sullo Stato essenziale può aiutare a ragionare superando l’abitudine ormai radicata a non andare oltre il giorno per giorno, tessendo e disfacendo in continuazione la tela delle scelte politiche, economiche e sociali. Serve, invece, ritrovare una capacità progettuale nella quale trovi posto un insieme di valori necessari per guardare avanti: la centralità delle persone e non dell’arbitrio privato, le priorità da individuare come la sanità, la formazione, l’ambiente privato di ogni scorciatoie estremiste, una politica delle opportunità e non delle elargizioni. Possiamo sostenere che in questo scenario il ruolo dello Stato sia quello di uno spettatore che lascia fare, di un Ponzio Pilato che se ne lava le mani? Se c’è un primo mattone da porre per ricominciare, questo non può essere costituito che dalla volontà di ricostruire. E per ricostruire serve uno Stato efficiente ed efficace, che promuova, che intervenga, che faccia rispettare regole e comportamenti.
Finora la ricetta liberista non solo ha condotto verso orizzonti che non hanno risolto problemi atavici: la precarietà, la bassa produttività, il lavoro irregolare, il lavoro che provoca vittime. E non è neppure riuscito a velocizzare il cosiddetto ascensore sociale se oggi appare sempre più evidente la necessità di allargare la conoscenza per riconoscere la dignità del lavoro e della persona.
Ma le teorie liberiste hanno provocato anche un passo indietro nella qualità della nostra civiltà associando la concezione di uno Stato “soffocante” a quella di una inadeguatezza della politica come guida dei progressi di una società, con la conseguenza di aver creato crepe sia nella democrazia sia nella partecipazione.
La trasformazione della politica è avvenuta non solo perdendo credibilità, ma caratterizzandosi come uno scontro fra estremi: da un lato i movimenti antisistema poi rapidamente normalizzati, dall’altro formazioni politiche sempre più identificatesi in un’esistenza che non può fare a meno della occupazione del potere. In questo contesto l’umanesimo socialista, il riformismo, non hanno più trovato un modo di esprimersi, quando invece sarebbe molto importante riscoprirli e attualizzarli al servizio di una vera e propria rianimazione della vita politica e sociale.
Il liberismo torna ad essere un argomento di attualità proprio quando in Italia si completa il giro delle opzioni politiche. Ora tocca alla destra con la speranza di alcuni che essa si delinei non come un soggetto autoritario ma “conservatore”. È presto per fare previsioni, ma è significativo che venga riproposta la cultura liberista che vede nello Stato il primo tabu da abbattere proprio quando un Governo della destra politica è chiamato ad affrontare i grandi nodi che la società italiana ha di fronte.
Questi due “percorsi” sono destinati ad incontrarsi? Non sarebbe nell’interesse del Paese. L’esempio migliore viene dalla ventilata prospettiva di una rivisitazione del Pnrr in una fase nella quale per giunta devono tornare i conti pubblici sotto il cambiamento di strategia della Bce ed in attesa che l’Europa decida cosa fare delle regole che presiedono ai conti pubblici e che sono state riposte nel cassetto soprattutto durante la pandemia. Secondo la cultura liberista dovrebbe essere il mercato ad usare quelle risorse europee, la destinazione dovrebbe privilegiare il privato visto che lo Stato è afflitto da mali endemici come la burocrazia, l’eccesso di norme, una cattiva distribuzione dei poteri. Ma in questo caso si sottovaluta la posta in gioco. Le risorse del Pnrr devono incentivare un grande sforzo di trasformazione del Paese: rimettere in sicurezza il territorio, agire con equilibrio per guidare la transizione ecologica, garantire una politica industriale alla luce dei conflitti mondiali, quelli militari come pure quelli del possesso delle fonti energetiche e delle materie prime e come ancora le direttrici del commercio internazionale. Ma non solo: scuola, sanità e lavoro sono tuttora tre pilastri per rigenerare il Paese. Si può agire in queste direzioni con lo Stato messo all’angolo? Non è decisamente la scelta migliore. La critica che arriva dai sostenitori dello Stato essenziale è utile per segnalare gli errori che non vanno ripetuti. Ma come si fa ad ignorare che solo con una partecipazione alle decisioni da prendere dei grandi soggetti collettivi come ad esempio i sindacati, si potrà mettere in moto processi riformatori capaci anche di promuovere nella realtà del lavoro e della società un ritorno alla discussione, al confronto, alla voglia di essere protagonisti, di contare. Come si possono diminuire le diseguaglianze affidando ai privati di oggi, ovvero grandi potentati economici e finanziari, un discorso di equità, un sistema che garantisca opportunità?
Prendiamo solo in esame la questione della rivoluzione tecnologica: essa nasconde rischi di emarginazione permanente, di sfruttamento, di instabilità sociale. Ed appare insindacabile. Come si fa ad evitare questi fattori negativi se non si oppone in modo organizzato una cultura adeguata della conoscenza, della partecipazione, della solidarietà?
La via da percorrere, dunque, pare essere quella di uno Stato efficace, solidale, aperto alla partecipazione, deciso nel considerare essenziale la centralità della persona e di ciò che ruota attorno ad essa. E poi a cosa servono le riforme se non a rendere realmente rapidi i percorsi decisionali ma senza lasciarsi dietro le spalle più problemi di quelli che si vogliono risolvere? Approfondire la valenza dell’umanesimo riformista potrebbe essere assai più utile. Come fa la Uil proponendo il sindacato delle persone. Utile per evitare derive negative sul piano della giustizia sociale, dello sviluppo, ma anche per aprire gli occhi ad una sinistra che cerca una sua identità laddove non la può trovare, ovvero nei giochi di potere, mentre ignora i valori di una tradizione che avrebbe ancora molto da suggerire.
Paolo Pirani
Consigliere Cnel