Il governo Meloni non ha esitato a “fare cassa” nell’unico modo che garantisce maggiori entrate o risparmi di spesa pensionistica: la manipolazione della perequazione automatico del trattamenti in ragione dell’incremento del costo della vita. Le pensioni sono rimaste, anche dopo l’abolizione nel 1992 dell’indennità di contingenza dei lavoratori dipendenti, le uniche prestazioni monetarie indicizzate, che nel corso del tempo hanno subito diverse modifiche.
La perequazione automatica – che percorre un pezzo di cammino in parallelo con la “scala mobile” di infausta memoria (tanto da essere coinvolta per anni dalla logica del punto unico, poi rivista nel contesto della problematica delle c.d. pensioni di annata) – si basava fin dalla legge n.153 del 1969 su di un meccanismo legato alle dinamiche dell’inflazione. Successivamente venne introdotto un secondo meccanismo di adeguamento legato alle retribuzioni contrattuali dei lavoratori attivi, fino a quando nel d.lgs n.503 del 1992, nell’ambito della riforma del primo governo di Giuliano Amato, gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali si applicarono, con decorrenza dal 1994, sulla base del solo adeguamento al costo vita con cadenza annuale ed effetto dal 1° novembre di ogni anno. Ulteriori aumenti potevano essere stabiliti con legge finanziaria in relazione all’andamento dell’economia e tenuto conto degli obiettivi rispetto al PIL sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Ciò costituiva quanto rimaneva nell’ordinamento in relazione agli andamenti della produttività.
Non si può dire che questo secondo strumento di perequazione abbia avuto riscontri positivi, tanto che le organizzazioni sindacali non si mostrarono eccessive preoccupazioni per la sua abolizione, nonostante che questa misura fosse la più significativa per il contenimento a regime della spesa pensionistica, come è dimostrato dal grafico sottostante che il governo italiano presentò in sede Ue nel contesto del Patto di stabilità e convergenza del 1998 che consentì l’ingresso nel club della moneta unica. Fonte-RGS 1998
Nel grafico sono indicati tre diagrammi: il primo e più elevato voleva dimostrare a quali livelli insostenibili sarebbe arrivata la spesa pensionistica in assenza di riforme (il picco era collocato intorno al 2030-2035). Le linea più bassa riguardava l’andamento della spesa dopo le riforme (si erano aggiunte anche le riforme dei governi Dini, Prodi e quella del ministro Maroni, oltre ad altri parziali interventi). Il diagramma collocato a metà rappresentava quanto in termini di incidenza sul Pil era dovuto dalla riforma delle indicizzazioni. Chiunque è in grado di notare che si trattò dell’intervento di maggiore effetto a cui è dovuto il più importante taglio della dinamica della spesa (almeno 7 punti di Pil). È questo il primo atto di una vicenda per lo più sconosciuta e sottovalutata, la quale dimostra che il costo più elevato al contenimento della spesa pensionistica lo hanno dato proprio i pensionati, attraverso gli interventi sulla perequazione automatica dei trattamenti in essere.
Il meccanismo standard della rivalutazione automatica prevede che sia piena solo per le quote di pensioni più basse e parziale per le quote di pensioni superiori ovvero: indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo; al 90% sulla quota di pensione compresa tra 3 e 5 volte il trattamento minimo; al 75% sulla quota di pensione superiore a 5 volte il trattamento minimo. Si andò avanti secondo questa impostazione per anni (magari con qualche piccolo taglio periodico tanto in alto da essere simbolico). Ciò fino al 2007 quando il secondo governo Prodi (ministro del Lavoro Cesare Damiano) sospese per un anno (allo scopo di concorrere a coprire la maggiore spesa del superamento del c.d. scalone), la rivalutazione sopra i 3.500 euro lordi mensili.2007 fu sospesa, per un anno, la rivalutazione sopra i 3.500 euro lordi mensili. Si tenga conto (lo anticipiamo qui anche per quanto diremo più avanti), che tali risorse saranno perdute per sempre dai pensionati, anche quando la perequazione dovesse rientrare nei canoni normali. Nel 2009-2010, addirittura, venne migliorato il sistema: l’indicizzazione fu portata al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 5 volte il trattamento minimo (fino a 2.217,80 euro lordi mensili del 2009 e 2.288,80 euro del 2010). Il balzo in avanti fu però compensato dal 75% sulla quota di pensione superiore a 5 volte il trattamento minimo (da 2.217,81 euro lordi mensili del 2009 e da 2.288,81 euro nel 2010).
Terminato, nel 2011, il triennio previsto di ampliamento della quota di pensione coperta integralmente dall’inflazione, si tornò alla situazione del 2007. Il tourbillon della perequazione automatica ebbe inizio dal 2012 nell’ambito della Fornero che stabilì il blocco dell’indicizzazione a carico delle fasce al di sopra di tre volte l’importo del minimo (fino a 1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013 l’indicizzazione restava al 100 per cento). Le pensioni d’importo superiore non ricevevano alcuna rivalutazione. Questa misura fu dichiarata incostituzionale perché viziata da inadeguatezza. Il che indusse il governo Renzi a rimediare per decreto (dl n.65/2015) ampliando, in modo retroattivo, il numero dei soggetti tutelati (senza coprire tuttavia l’intera platea), e con aliquote di perequazione ridotte man mano che cresceva l’ammontare del trattamento.
Le opposizioni di allora protestarono insieme ai sindacati, rivendicando l’integrale copertura. La Consulta considerò legittimo l’aggiustamento. Si determinò così, a seguito del decreto legge, un regime transitorio che avrebbe dovuto concludersi nel 2017 per fare ritorno al modello classico delle tre fasce. Ma nella legge di bilancio per il 2016 (allo scopo di finanziare “opzione donna” introdotta nel 2004, ma rimasta a lungo in letargo) tale termine venne spostato alle fine del 2018. Va notato che per il 2016, l’indice Istat dell’inflazione 2015 era risultato negativo e pertanto dal 1° gennaio 2016 non fu riconosciuta alcuna rivalutazione delle pensioni, quindi nessun aumento dell’assegno. Inoltre, poiché l’indice di inflazione provvisorio per la rivalutazione delle pensioni nel 2015 era stato stabilito nello 0,3%, ma fu definitivamente fissato dall’Istat nello 0,2%, dal 1° gennaio 2016 le pensioni si sarebbero dovute ridurre di quanto corrisposto in più nel 2015, cioè lo 0,1%. Per evitare una rivalutazione negativa, la legge di stabilità 2016 aveva previsto che a gennaio fossero messi in pagamento gli importi “corretti” sulla base dell’inflazione definitiva 2014, ma senza alcuna trattenuta riferita al 2015. Il conguaglio si sarebbe fatto, ma solo nel 2017; cosa che in realtà non avvenne in quanto anche per quell’anno l’indice d’inflazione risultò pari a 0. Per un certo arco di tempo la rivalutazione fu applicata per fasce complessive di importo e non per scaglioni.
Il governo giallo-verde spostò in avanti di un triennio il ripristino della normale perequazione. E adottò un meccanismo molto arabescato. Ecco i nuovi scaglioni:
- 100% fino a tre volte il minimo,
- 97% fra tre e quattro volte il minimo, da 1.522 e 2.029 euro,
- 77% da quattro a cinque volte il minimo, fino a 2.537 euro,
- 52% fra cinque e sei volte il minimo, fino a 3042 euro,
- 47% fra sei e otto volte il minimo, fino a 4059 euro,
- 45% fino a 4566 euro (nove volte il minimo),
- 40% per gli importi superiori.
I pensionati, tuttavia, ebbero degli aumenti minori di quelli attesi, ma non inferiori di quelli percepiti fino ad allora durante il periodo transitorio, secondo quanto disposto dai governi precedenti.
Nel 2022 vennero a scadenza le normative precedenti e pertanto si ritornò automaticamente alla schema classico; e così è avvenuto dopo tanto girovagare tra le aliquote e le fasce di reddito. Ma, per il 2023 e il 2024 la legge di bilancio del governo Meloni ha provveduto a una ulteriore manipolazione con l’obiettivo di compensare, con la minore spesa per la perequazione, quella maggiore per quota 103. Che l’operazione (a cui si aggiunge una drastica riduzione dei possibili accessi ad opzione donna) abbia un minimo di equità è molto dubbio stando agli stessi dati della Relazione tecnica. Per consentire a 41 mila lavoratori di usufruire della “pensione anticipata flessibile” si è manomessa per due anni la perequazione automatica di 3,3 milioni di pensionati. Inoltre quelli che usufruiranno di questa nuova prestazione sperimentale solo per l’anno in corso, incapperanno in gran parte, per due anni, nelle misure di ridefinizione della perequazione automatica. La copertura integrale è infatti prevista fino a 2.100 euro mensili lordi ovvero circa 1.700 netti. In sostanza contribuiranno a “pagarsi” le pensione flessibile.
Nel dettaglio, infatti, la disposizione prevede che per il periodo 2023-2024 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, sia riconosciuta: a) per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100%; b) per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi: 1) nella misura dell’80% per i trattamenti pensionistici complessivamente pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS, 2) nella misura del 55 % per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS; 3) nella misura del 50 % per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a otto volte il trattamento minimo INPS; 4) nella misura del 40 % per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a otto volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a dieci volte il trattamento minimo INPS; 5) nella misura del 35 % per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a dieci volte il trattamento minimo INPS. Sono previsti i meccanismi di salvaguardia per i trattamenti di importo in prossimità delle differenti soglie.
Giuliano Cazzola