L’esercizio è semplice, facile, ma non rende più sereni. Sedetevi su una panchina lungo un viale e guardate le macchine che passano. Provate a contare i Suv, le berline di grossa cilindrata, diciamo le auto che costano da 30 mila euro in su. Quante sono? Una marea. Anche 14 mila Ferrari in Italia sembrano tante, ma qui parliamo (dati 2021) di un milione e mezzo di Mercedes, oltre un milione sia di Alfa Romeo che di Audi, più di mezzo milione di Jeep. Solo queste quattro marche fanno 4,5 milioni di vetture. Poi ci sono le Bmw, le Porsche, le top di gamma Citroen, Volkswagen e via elencando. Le macchine sopra i 2000 cc. sono due milioni e mezzo. Chi le guida? Chi le possiede? Stranieri, certamente, non ci sono dubbi. Non ci sono abbastanza italiani abbastanza ricchi da permettersi tutte queste automobili. Stranieri a Roma, dunque, stranieri a Milano e stranieri anche a Isernia, per dire, dove solo 125 contribuenti italiani dichiarano un reddito superiore a 120 mila euro l’anno, ma le Jaguar immatricolate sono 133.
Noi siamo, infatti, un paese di poveri, anzi di poveracci. Così certifica il fisco. Oltre metà degli italiani dichiara un reddito sotto i 10 mila euro l’anno, sull’orlo della soglia di povertà. Il problema è crederci. Sono tempi duri, fra crisi e carobollette c’è da stringere la cinghia, ma, a guardarsi intorno, il panorama non è di miserabili. Viene da pensare, invece, che in troppi barino. Davvero 4 italiani su 5 mettono insieme, al massimo, meno di 29 mila euro l’anno? Su 13 mensilità, corrisponde ad un reddito mensile lordo di 2.230 euro. Togliete tasse e contributi, l’80 per cento delle famiglie italiane tira avanti con meno di 1.500 euro al mese, se sono in cima allo scaglione, altrimenti molto meno.
In base alle dichiarazioni Irpef, solo il 13 per cento degli italiani guadagna più di 35 mila euro l’anno, corrispondenti ad un reddito mensile netto sui 1.800-2.000 euro. E sopra i 55 mila euro l’anno – il reddito netto di 2.500 euro circa al mese, con cui un capofamiglia assai azzardato potrebbe forse rischiare l’acquisto di una Mercedes o una Bmw – ci sono solo il 5 per cento dei contribuenti. In tutto, 2 milioni di persone su 41 milioni, uno ogni venti.
Di fatto, il paese viene mandato avanti da quei 5 milioni di contribuenti che dichiarano un reddito superiore a 35 mila euro l’anno e che, per questo, forniscono il 60 per cento del gettito Irpef. E’ un fardello pesante per i ceti medi del paese. Soprattutto, perché è un ceto medio sbilenco. Fatto di lavoratori dipendenti e pensionati. Gli autonomi, professionisti, artigiani, commercianti stanno altrove: le statistiche dicono che sottraggono agli occhi del fisco mediamente il 70 per cento del loro reddito e, per lo più, dovete andarli a cercare giù, negli scaglioni dei finti poveri. La differenza fra il paese di poveracci dipinto dal fisco e il paese reale che vediamo sono, dunque, i 100 miliardi di euro di tasse evase ogni anno, il grosso proprio dagli autonomi.
Sono queste cifre che disegnano il perimetro entro cui giudicare la manovra economica che il governo Meloni sta varando. Una manovra piccola, piccola, assai poco ambiziosa, è stato detto. E per questo lodata. Ma con una valenza sociopolitica chiarissima. In tutto il mondo, la destra si caratterizza per i tagli al welfare, con cui si finanziano sgravi fiscali ai più abbienti e regalie a categorie elettoralmente rilevanti. Qui, in Italia, l’operazione viene realizzata in maniera esplicita, quasi sfacciata. La decurtazione del Reddito di cittadinanza e la tosatura sull’adeguamento delle pensioni più alte (dei lavoratori dipendenti, perché gli autonomi non dichiarano un reddito che li collochi in queste fasce) forniscono le risorse per l’allargamento della flat tax sugli autonomi e quota 103 per le pensioni di settori ben delimitati di lavoratori settentrionali.
Di più, rendono finanziariamente possibile l’ennesimo condono, destinato a premiare le categorie che non pagano le tasse con trattenute sullo stipendio. Attenzione, perché l’amnistia assume la veste di un provvedimento eccezionale, occasionale. Invece, è diventato un elemento strutturale del fisco all’italiano. Quello che sta per partire è il quarto condono in soli dieci anni, che cancella cartelle esattoriali arrivate al pagamento verificato e ultimativo. I primi due condoni – ricorda un ministro delle Finanze di altri tempi, Vincenzo Visco – hanno coinvolto 12,5 milioni di contribuenti. E sottratto allo Stato ben 32 miliardi di euro di gettito condonato. Il terzo (con una soglia condonabile più alta) ha evitato il pagamento al fisco di 25 miliardi di euro.
Sono cifre enormi, che valgono una intera Finanziaria. E non è che non servano: le metteranno, in gran parte, i 5 milioni di contribuenti che assicurano quel 60 per cento dell’Irpef.
Maurizio Ricci