Rota il nuovo ministero dell’Agricoltura avrà nel suo nome anche la dicitura “sovranità alimentare”. Come legge questa definizione?
Se per sovranità alimentare intendiamo che mangeremo solo quello che produciamo è chiaro che si tratta di un’utopia irraggiungibile. Non possiamo produrre e trasformare avvalendoci esclusivamente dei nostri prodotti, anche perché abbiamo un’industria di trasformazione alimentare molto sviluppata, che dimostra di saper stare sui mercati globali. La sovranità alimentare non è questo, e non dovrebbe neanche essere confusa con il sovranismo.
Che cos’è per voi?
La sovranità alimentare va intesa come maggior tutela del lavoro italiano e delle nostre produzioni da speculazioni e meccanismi distorsivi. Penso ad esempio all’etichetta europea Nutriscore, che è dannosa per il made in Italy e disorienta i consumatori. Poi sovranità vuol dire anche puntare su produzioni agroalimentari sempre più sostenibili, che è un nostro valore aggiunto. Ma vuol dire anche rafforzare le catene del valore, attraverso maggiori riconoscimenti ai lavoratori. Per dirla con una battuta: la vera sovranità la fanno i lavoratori, nel senso che si ottiene investendo sul lavoro di qualità e la buona contrattazione.
Secondo lei la sovranità alimentare è una definizione ascrivibile solo a un preciso schieramento politico, la destra?
C’è tutto un dibattito sull’origine di questo concetto, ma trovo riduttivo cercare di attribuirlo alla destra o alla sinistra.
Quali sono le sfide che attendono il comparto agroalimentare?
L’agroalimentare è diventato il secondo settore manifatturiero del Paese, con oltre 500 miliardi di produzione annua e 52 miliardi di export nel 2021, che quest’anno arriveranno a 60, perciò rappresenta un quarto del prodotto interno lordo. Tutto questo richiede una lente di ingrandimento e un’attenzione costante, anche per affrontare le debolezze del settore partendo dalla carenza di manodopera. Il settore agricolo occupa 1 milione e 100mila addetti, di cui quasi 360mila sono lavoratori stranieri. Al 2030 prevediamo che diventino il 50%. Anche durante la pandemia, tra i lavoratori più giovani dei settori che hanno risentito maggiormente delle chiusure, come il turismo, solo in pochi hanno preso parte ai periodi di raccolta. Questo si lega al tema del turnover generazionale. La strada che il settore sta imboccando è quella di un assottigliamento della popolazione attiva rispetto a chi percepisce la pensione, perciò richiede anche politiche migratorie strutturali, più avanzate e inclusive di quelle attuali.
Quali sono i temi più urgenti che chiedete di affrontare al nuovo governo e al ministro?
Primo punto è l’attuazione rapida e completa del Pnrr. La siccità di questa estate non solo ha riproposto con forza il tema della fragilità delle nostre produzioni davanti ai cambiamenti climatici, ma ha ripresentato anche il conto del dissesto idrogeologico, pagato sempre più caro, anche con vite umane. Per cui ogni euro del Pnrr dedicato a questi aspetti va investito in modo lungimirante, valorizzando anche i lavoratori della bonifica e della forestazione. Inoltre c’è una sfida formativa da affrontare. I green jobs stanno assumendo una crescente importanza, sia per l’ambiente che per il sistema agroalimentare. Ma questi richiedono formazione, nuove competenze e, in prospettiva, una maggiore sinergia con il mondo della scuola e dell’università. C’è poi il tema della decorrenza della condizionalità sociale della nuova Pac, recepita nel piano strategico nazionale agricolo, senza dimenticare la politica che il nuovo governo intenderà perseguire sul versante della forestazione, comparto che secondo noi deve passare da una semplice forestazione di difesa del suolo a una forestazione produttiva e di presidio umano del territorio.
Tommaso Nutarelli