Che rapporto c’è fra San Francesco e Putin? Nessuno, purtroppo: i due, per così dire, non comunicano. Ecco perché è meglio non farsi incantare dal richiamo di un generico pacifismo a San Francesco: il santo che ammansiva i lupi giocava in un altro campionato o, meglio, faceva un altro sport. E – ciò che conta anche di più – anche il lupo, pronto a negoziare, faceva uno sport diverso da quello che piace a Putin. Dietro agli appelli alla pace – subito e comunque – che riecheggiano in Italia fin dal giorno dell’invasione in Ucraina e che sono prepotentemente riemersi dopo la campagna elettorale, rischiando di intorbidire le prossime manifestazioni di piazza, c’è un equivoco fondamentale e decisivo. La pace non è l’assenza di guerra. La pace è la presenza – e la difesa – di un sistema di regole che impedisce la guerra. E’ questo sistema che l’invasione russa dell’Ucraina tenta di demolire. E, se cade, la pace diventa davvero materia da riservare ai santi.
Ecco, dunque, un piccolo manuale di sano pacifismo.
Punto primo: la pace fra gli uomini, e non quella dei santi e martiri, si fa in due. Dal giorno dell’invasione, Putin non ha mai dimostrato interesse a rinunciare alla guerra. Anzitutto, direbbe un diplomatico, chiarendo l’obiettivo che persegue. Il dittatore del Cremlino girovaga fra varie ipotesi, che appaiono intercambiabili a seconda dei giorni. Vuole una Ucraina lontana dalla Nato? Vuole “denazificare” il paese confinante, imponendogli un diverso governo? Si accontenta del Donbass e regioni limitrofe? Non lo sappiamo. Tutto questo, probabilmente. Difficile parlare di negoziato, quando l’invasore chiarisce che le quattro regioni che si è annesso, benché neppure le controlli, sono materia fuori dal tavolo. Questa non è pace, è una richiesta di resa senza condizioni. E così la posizione di quei pacifisti convinti che armare l’Ucraina allontani la pace può essere riassunta in una sola parola, rivolta a Kiev: arrendetevi.
Punto secondo: la pace vera si fa sulla punta del fucile. Armare l’Ucraina, infatti, non allontana la pace, ma, al contrario, la avvicina. Negli ultimi giorni, infatti, si è potuto cogliere, nelle mezze parole di Putin, qualche spiraglio di volontà di trattativa. San Francesco non c’entra. La verità è che Putin si rende conto – come rilevano gli esperti militari d’Occidente – che la guerra la sta perdendo. Probabile che guardi con interesse almeno a qualche forma di cessate il fuoco. Per avere il tempo di riorganizzarsi e partire alla controffensiva? O per trovare una via d’uscita al vicolo cieco in cui si è cacciato, imponendo ai suoi militari obiettivi politici fuori dalla loro portata? Non lo sappiamo e sono i punti chiave intorno a cui dovrebbe girare un futuro – chissà – negoziato. Ma se i tank russi non scorrazzano per le strade di Kiev, rendendo superflua ogni trattativa sulla pace, è perché l’Ucraina ha saputo e potuto difendersi.
Punto terzo: ogni pace va difesa, difendendo, ad ogni costo, le regole su cui si regge. Non c’è da andare a cercarle chissà dove. Sono da 75 anni nella carta dell’Onu e si comincia con la sovranità e l’indipendenza di ogni paese, a cominciare dall’inviolabilità dei suoi confini. E qui bisogna liberarsi dal riflesso istintivo di chi non è più giovanissimo e ragiona inconsciamente ancora in termini di Unione sovietica. L’Urss non c’è più e l’Ucraina è indipendente (anche piuttosto fieramente, si direbbe) da trenta anni. Nel 1900, il Veneto non faceva più parte dell’impero austroungarico da solo qualche anno di più.
E’ questa la regola in discussione, in questi mesi, in Ucraina. La vera ragione dell’erraticità delle condizioni di Putin per la pace è che il motivo profondo dell’invasione è il sogno – chiaramente visibile nei suoi discorsi – di restaurare l’impero russo, recuperandone i confini che aveva nell’800. Di questo, in realtà, stiamo parlando e per questo sul dopo-Ucraina bisogna interrogarsi. La posta in gioco ci riguarda tutti, non solo gli ucraini, perché se torna il principio che i confini si muovono con i carri armati torniamo indietro di un secolo, al periodo più buio della storia recente. Allora gli austriaci arrivano con i tank a Bressanone, fanno un referendum casareccio e si annettono tutto il resto dell’Alto Adige? Ci riprendiamo Fiume o Nizza? Fantasie, certo. Ma applicate la dottrina Putin al Kashmir. O – molto concretamente – a Taiwan. Nelle pianure del Donbas o alla foce del Dniepr, in questo momento, non si sta difendendo solo l’Ucraina, ma ciò che rende possibile la pace mondiale. Ecco perché è cruciale costringere Putin a fare marcia indietro.
Punto quarto: al fronte, in questo scontro, ci siamo noi. Gli esperti militari prevedono che con l’inverno, il fango, la neve, la guerra entrerà, salvo sorprese, in una fase di stallo. Al nucleare, gli stessi esperti non credono: a parte tutto, se il vento gira male, Putin la radioattività se la troverebbe in casa. Ma la battaglia decisiva dell’inverno si combatterà in Europa, intorno a termosifoni, fornaci e lampadine. A primavera, se l’Europa cederà al ricatto di Mosca e lascerà sola l’Ucraina, Putin darà la caccia, strada per strada, a Zelensky e Xi chiederà ai suoi generali i piani per Taiwan.
Questa guerra si vince con una vestaglia bella pesante.
Maurizio Ricci