E, dunque, che governo sarà il futuro governo Meloni? Conservatore, nazionalista, libertario, illiberale, postfascista? Un diverso risultato elettorale, che ridimensionasse meno Lega e Forza Italia, avrebbe consentito di orientarsi più facilmente, perché Salvini e Berlusconi li conosciamo meglio. Ma le urne hanno sancito la vittoria in solitaria di Fratelli d’Italia, che, finora, da un’eterna opposizione, non ha mai avuto la necessità di caricarsi della responsabilità delle sue decisioni. E, allora, una destra visionaria o realista? Quasi certamente, non lo ha ancora stabilito neanche la stessa Meloni. L’impressione è che finirà per decidere in corso d’opera. Questo vuol dire che, anziché attendersi clamorose svolte rispetto alla situazione attuale, misureremo il governo sulla base delle scelte che farà rispetto alle situazioni nuove che si troverà di fronte. Più che una previsione, la considero una scommessa. Vediamo cosa significherebbe, sulla base delle categorie di destra che abbiamo indicato all’inizio.
Conservatore. Tradizionalista di sicuro, reazionario no. Non mi aspetto un attacco diretto alla legge sull’aborto, ai diritti delle coppie di fatto, degli omosessuali o una caccia all’immigrato. Ma uno svuotamento delle riforme compiute o messe in cantiere in questi anni. Niente risorse per superare gli ostacoli ad una piena efficacia della 194 (l’ovvio esempio è la politica seguita dalla giunta di destra delle Marche). Finiscono in soffitta i tentativi di regolamentare il fine vita o di contrastare l’omofobia. Blindare le coste si rivelerà, ancora una volta, impossibile, ma niente ius soli o anche solo ius scholae e, soprattutto, l’ennesima occasione persa di regolare, regolamentare, gestire l’inevitabile flusso dell’immigrazione, se non scaricando sull’Europa la colpa di non saperlo fermare.
Nazionalista. Rivendicare maggiore sovranità rispetto ad un’Europa che ci sta fornendo 200 e passa miliardi di euro non pare facile. Ma è prevedibile che Roma, d’ora in poi, si aggiunga a chi ostacola i tentativi di dare alla Ue una struttura più efficiente e più federale. Ad esempio, bocciando la proposta di allargare l’area delle decisioni che possono essere prese a maggioranza (in politica estera o fiscale o bancaria). Se Bruxelles deciderà di spingere con decisione sul pedale delle sanzioni contro Ungheria e Polonia in materia di difesa dello Stato di diritto, si troverà contro anche Roma.
Libertario. Nella terminologia anglosassone, la parola indica le politiche ultraliberiste, alla Reagan o Thatcher: sgravare di tasse i ricchi, perché siano stimolati ad una maggiore intraprendenza che favorisca la crescita economica e, per questa via, benefici anche i meno fortunati. Magari, finanziando il tutto in deficit. E’ quello che sta facendo, in questi giorni, a Londra Liz Truss. Salvini ne è probabilmente, entusiasta, ma la rivolta dei mercati contro Londra indica – ove ce ne fosse bisogno – i pericoli di cui è lastricata questa strada. In ogni caso, i margini di manovra con cui si confronta, in economia, la Meloni sono strettissimi ed evidenti. Difficile che, per ora, tenti di forzarli. Cruciale il nome del futuro ministro dell’Economia (più esattamente, il nome che accetterà Mattarella).
Postfascista. Al di là delle polemiche sui saluti romani, i pellegrinaggi nostalgici e i tentativi – finora assai timidi – di riscrivere la storia, tutte cose che Meloni sta accuratamente tenendo ai margini, che significa fascista oggi? Ci sono libri in materia, ma un giornalista americano, Matt Ford, dà una definizione di pronto uso del fascismo XXI secolo. Sostanzialmente, un movimento che rievoca un passato glorioso, ne constata la rovina attuale, ne scarica la responsabilità sugli immigrati/la sinistra/la casta e sostiene che, per mettere le cose a posto, i normali strumenti democratici non bastano. E’ una definizione che sembra ritagliata addosso a Putin, in cui si vedono scorci di Trump, ma, anche di più della retorica imperante a Budapest o a Varsavia. Non si direbbe, però, l’abito della Meloni.
Illiberale. Qui, invece, la classe dirigente di FdI sembra avere qualche tentazione in più. In realtà, non si intravede nessun copia-e-incolla dal manuale di Orban, a cui si deve il logo della “democrazia illiberale” ma i terreni su cui si avventura chi, dentro Fratelli d’Italia, ragiona sulle istituzioni del paese sono delicatissimi per l’equilibrio della democrazia. Sono ragionamenti a lunga gittata, anche perché coinvolgono modifiche alla Costituzione. Tuttavia, visto l’interesse con cui sono stati accolti nell’area Calenda-Renzi potrebbero essere meno proibitivi di quanto appaia a prima vista. Del resto, sono pienamente legittimi e non, in linea di principio, dirompenti. Suggeriscono riforme che ripetono situazioni esistenti in altre democrazie. Tutto sta a vedere come vengono declinate, perché in ballo c’è l’indipendenza della magistratura e quella del Parlamento.
Il primo nodo è l’obbligatorietà dell’azione penale, assai sgradita ai due più quotati candidati alla carica di ministro della Giustizia: Giulia Bongiorno e Carlo Nordio. Oggi, il magistrato è tenuto ad inseguire qualsiasi notizia di reato. Nei fatti, i reati si accumulano nei registri e il magistrato sceglie quali perseguire. Ma le scelte sono diverse da tribunale a tribunale e il possibile reato, comunque, sempre pendente. Se l’azione penale non è più obbligatoria, chi decide quali reati perseguire? Il singolo magistrato o è il governo a indicare su cosa concentrare le inchieste: magari droga o immigrazione clandestina, piuttosto che corruzione o scempi urbanistici?
L’altro nodo è decisivo. Il dibattito sul presidenzialismo non è un tabù. Stati Uniti e Francia sono due grandi democrazie presidenziali. Il problema sono i contrappesi ai poteri del futuro presidente. Nella Costituzione italiana gli attuali poteri del presidente della Repubblica, visto come supremo garante istituzionale, non sono insignificanti: è capo delle Forze Armate, della magistratura e, soprattutto, sceglie un terzo dei giudici costituzionali (gli altri due spettano alla magistratura e al Parlamento). Un futuro presidente eletto dal popolo avrebbe gli stessi poteri? E, soprattutto, chi lo controlla?
Con l’attuale sistema elettorale italiano, nessuno, perché il futuro presidente, vincitore delle elezioni, sarebbe anche il leader politico che, di fatto, si è scelto, uno per uno, i parlamentari della sua maggioranza, come è avvenuto nelle elezioni appena concluse. In America, un sistema uninominale profondamente radicato fornisce un contrappeso. Non solo perché la maggioranza può essere – o diventare – diversa da quella che ha eletto il presidente. Ma perché i singoli parlamentari rispondono ai propri elettori e non devono al partito o al suo leader il loro seggio. Lo si è visto , in questi mesi, con il lungo braccio di ferro fra un singolo senatore e la Casa Bianca sulla riforma della legislazione per il clima fortemente voluta da Biden.
La riforma presidenziale all’italiana richiede, insomma, una mappa dei poteri che, finora, nessuno ha prospettato.
Maurizio Ricci