Neanche un grazie, in questa tornata elettorale, per i partiti che ci hanno trasportato attraverso le angosce della pandemia e la tragedia della guerra. Il voto, più di programmi e promesse, ha premiato soprattutto chi si è sempre chiamato fuori dalle scelte difficili, come l’estrema destra, e, comunque, subito dopo, chi, con un piede mezzo dentro e mezzo fuori, è riuscito ugualmente ad interpretare l’indistinto rancoroso ribellismo che prevale, quali siano le circostanze, fra gli italiani di oggi, come i 5Stelle. Sarebbe, in verità, il ritratto anche della Lega, ma Matteo Salvini ha duramente pagato, nell’urna, l’evidenza del connubio abortito fra quel malcontento generalizzato e i solidi interessi di un establishment settentrionale, ostile ad ogni avventurismo. Proprio il conflitto interno alla Lega mette a nudo quello che è il messaggio più significativo uscito da queste elezioni. Grosso modo, infatti, siamo rimasti al 2018, la tornata del grande boom dei 5stelle, all’epoca populisti vintage, capaci di intercettare, da soli, un terzo dell’elettorato.
Il responso delle urne, in questo 2022, dice, però, al di là della diversa distribuzione dei suffragi, qualcosa di più rispetto al 2018: piuttosto che uno spostamento a destra, infatti, il voto esprime una esplicita crisi di rigetto verso il governo che, secondo un giudizio diffuso, soprattutto all’estero, è stato il più efficiente, il più efficace, il più attrezzato degli ultimi anni. Sommate i voti di Fratelli d’Italia, degli altri partitucoli da sempre opposizione e quelli di 5Stelle e Lega, i due partner riottosi: il 25 settembre, oltre metà degli italiani ha dichiaratamente bocciato Draghi.
Inutile girarci attorno. L’esasperazione di Carlo Calenda, che accusa gli elettori di aver “scelto degli incompetenti” è, più che una rosicata, un nonsense politico: gli elettori hanno sempre ragione e si riparte da qui, per ricostruire il consenso. Nel vortice, comunque, a pagare, più delle illusioni di Calenda e delle ambiguità della Lega è stato però il Pd, vistosamente arenato su uno zoccolo duro di consensi che ancora resiste a qualsiasi traversia, ma non sembra più capace di espandersi. I commenti di queste ore, nei grandi media, insistono sulle timidezze, le esitazioni, la paralisi, le incertezze, le fumosità, la vaghezza della proposta politica dei democratici. I più aspri e taglienti, come sempre, sono quelli dei simpatizzanti delusi.
Sono commenti impietosi. Sfugge, in quelle condanne, il senso di inevitabilità che avviluppa la sconfitta del Pd. Non solo – e, soprattutto, non tanto – per questioni di contingente geografia politica, con un Letta, stretto a sinistra dal populismo di Conte e al centro dalla spregiudicata intraprendenza di Calenda e Renzi. Ma per ragioni di più lungo respiro. Per dieci anni, dalla caduta del governo Berlusconi, il Pd si è portato sulle spalle il paese. Alla fine, si è consumato. Per dieci anni, ha giocato di sponda, di rimessa, a caccia di compromessi in nome della responsabilità. Si poteva evitare di cancellarsi pur di evitare l’impasse del sistema politico? Forse. Però chi oggi spara su un quartier generale troppo rinunciatario dovrebbe anche riscrivere la storia d’Italia dal 2011 a oggi, da un Pd che avesse detto “con Monti mai” ad un Pd pronto a farsi di lato: “Draghi cuccatevelo voi”.
Da questo punto di vista, insomma, lo striminzito risultato elettorale, paradossalmente, significa, per il Pd una liberazione e, per la sinistra, finalmente, il tempo e l’occasione per reinventarsi. Ma se, come dice qualcuno, il governo Meloni dovesse implodere presto, con un’Italia in bilico? Nel caso, gli stessi commentatori spieghino se il Pd deve indossare nuovamente, o no, gli ingrati panni del pompiere.
Maurizio Ricci