L’era Draghi è davvero finita. Non solo a Roma, dove l’esperienza da presidente del Consiglio sta per concludersi, ma a Francoforte, dove i suoi dieci anni al timone della Bce avevano ribaltato e rivoluzionato le strategie della banca centrale. I falchi sono tornati a dominare la politica monetaria dell’eurozona e non si smentiscono, preparandosi a commettere gli stessi errori che Draghi aveva cancellato. Nella primavera del 2011, il predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet, nonostante si fosse nel pieno della tempesta finanziaria, sull’onda dei falchi, aumentò i tassi di interesse, scatenando la crisi dei debiti pubblici (greco, spagnolo, portoghese, irlandese, italiano) che avrebbe funestato gli anni successivi. Oggi, le conseguenze dovrebbero essere meno brutali, ma, non tanto il singolo aumento dei tassi deciso la scorsa settimana, quanto la retorica sulla stretta in preparazione per i prossimi mesi rischia di approfondire e prolungare la recessione che aspetta l’Europa.
In realtà, il punto è che il mondo visto da Francoforte non pare lo stesso che vedono gli altri. E’ possibile che, dopo essersi battuti il petto per aver sistematicamente sbagliato le previsioni sull’inflazione negli ultimi due anni, all’ufficio studi della Bce abbiano revisionato il modello econometrico, registrandolo, però, in modo precario. Fatto sta che gli economisti della banca centrale europea, nonostante gli scossoni della guerra ucraina, non vedono recessione all’orizzonte. L’andamento dell’economia nell’eurozona, l’anno prossimo, resterebbe, sia pure modestamente, positivo: più 0,9 per cento. E l’inflazione continuerebbe a mordere a lungo. Dopo un picco al 10 per cento nei prossimi mesi, inciderebbe ancora per il 5,5 per cento nel 2023 e resterebbe ancora sopra la barra del 2 per cento (2,4 per cento) nel 2024.
E’ questo il fondale su cui il board della Bce ha deciso di colpire, subito e duro. La componente, forse in questo momento più influente, la tedesca Isabel Schnabel, parla apertamente di “sacrifici” da compiere per fermare l’inflazione, non nel senso che siano inevitabili, ma che sono proprio i sacrifici lo strumento che può frenarla e, dunque, devono essere imposti senza tentennamenti. E una colomba, come il capoeconomista Philip Lane si limita a invocare che gli aumenti dei tassi siano adottati a piccole dosi, a seconda di come si evolve l’economia. Per la Schnabel, invece, bisogna agire d’anticipo, in modo da evitare che le aspettative di inflazione lievitino, scatenando la spirale prezzi-salari.
Il grosso degli economisti lontani da Francoforte la vede in modo diverso. Danno per scontata una recessione più o meno significativa, a livello globale e, in particolare a livello europeo. Il segnale è già evidente nel ciclo delle materie prime, in calo generalizzato (il gas fa eccezione, ma per altri motivi), petrolio compreso. Gli effetti si registreranno presto sull’inflazione, in particolare in Europa, dove il grosso dell’aumento dei prezzi è determinato dall’energia. Contemporaneamente, il rallentamento generalizzato dell’attività attenuerà le difficoltà delle catene di fornitura, un altro degli elementi che più incidono sui prezzi. Risultato? L’inflazione (per citare la previsione dell’ufficio studi Unicredit) dopo essere arrivata al 10 per cento questo autunno, scenderà rapidamente al 2,5 per cento entro l’anno prossimo e sotto il fatidico 2 per cento nel 2024. Forse è una discesa troppo rapida perché si inneschi la temuta spirale prezzi-salari. Di cui, al momento, non si vede, del resto, alcun segnale: con questo ritmo di inflazione, i salari reali stanno scendendo del 6-8 per cento, ma, in questo 2022, le richieste contrattuali sono state molto più basse. Anzi, sono scese negli ultimi mesi: gli aumenti salariali negoziati sono scesi dal 2.8 al 2,1 per cento.
Purtroppo, non è una disputa che si ferma alle schermate dei computer. Alla Bce sanno che gli strumenti della politica monetaria sono spuntati contro i prezzi delle importazioni e più di metà dell’inflazione dell’eurozona viene dalle importazioni di energia. Da qui, la tentazione di raddoppiare la stretta, visto che agisce solo sulla metà dei beni. Contemporaneamente, scatta la frustrazione per la mancanza di risultati immediati. Il rischio che, a Francoforte, prevalga il panico non è trascurabile. Da qui, a fine anno, infatti, secondo una previsione pressoché unanime, i prezzi continueranno a salire, qualunque cosa faccia la Bce. Sono i tempi della politica monetaria: prima che un aumento dei tassi arrivi nei bilanci delle banche, da qui nelle decisioni di credito e poi in quella di investimento delle imprese, infine nelle scelte dei consumatori, passano mediamente 18 mesi. Ovvero, gli effetti della stretta decisa oggi li vedremo a fine 2023.
Questo è un punto chiave. La Bce ha aumentato, in due riprese, i tassi di 1,25 punti da giugno ad oggi. Visto che si partiva da meno 0,50, oggi il tasso di riferimento della Bce è 0,75 per cento. Secondo le chiacchiere che girano a Francoforte, l’obiettivo sarebbe arrivare ad un tasso del 2-2,5 per cento entro febbraio. Vuol dire un rincaro di tre punti nel giro di soli sei mesi. Se hanno ragione gli altri economisti, si arriverebbe a questo punto nel momento, all’inizio della prossima primavera, in cui l’inflazione comincerebbe a scendere rapidamente, senza che questo abbia niente a che vedere con i tassi della Bce. Ma il colpo di coda ci sarebbe, e brutale. La gelata indotta dai tassi della Bce arriverebbe fuori tempo massimo, a fine 2023, strozzando la ripresa, nel momento in cui l’inflazione sarebbe già domata e la recessione finita. Degno di Trichet.
Maurizio Ricci