L’Italia, l’Italia che lavora e produce, è preda dell’incertezza e della preoccupazione. La campagna elettorale in pieno agosto è una novità assoluta per il nostro paese e come tale viene guardata con sospetto. Non si sa cosa comporterà, quali saranno le conseguenze di ogni singola possibile mossa, e questo crea disorientamento. Il governo di Mario Draghi aveva proprio la caratteristica opposta: poteva non piacere, ma si sapeva perfettamente cosa avrebbe fatto e come.
Per tutti i diciassette mesi della sua vita questo ministero ha compiuto passo dopo passo il programma che aveva annunciato all’inizio, almeno fino a quando le nostre rissose e miopi rappresentanze politiche glielo hanno permesso. Le prospettive del dialogo sociale che il premier ha avviato potevano apparire labili, ma il suo intento era chiaro, e molto vicino a quello delle parti sociali. Non è un caso se gli incontri che Draghi ha avuto in questa settimana hanno consentito a tutti, sindacati e imprenditori, di esprimere consensi e valutazioni positive. Anche Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, che pure aveva già preannunciato per l’autunno manifestazioni di piazza non certo a favore del governo, pure lui, uscendo da Palazzo Chigi, si è detto soddisfatto delle assicurazioni che aveva ricevuto, sia pure da un presidente del consiglio costretto a non abbandonare il perimetro degli affari correnti.
Adesso non si sa cosa accadrà e quel poco che si conosce non offre alcuna rassicurazione. Di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi qualcosa si può immaginare, di Giorgia Meloni assolutamente no. Nessuna indiscrezione o allusione su quello che vuole fare se arriva a Palazzo Chigi. E siccome questa è un’eventualità, ma con un alto tasso di realizzabilità, c’è da preoccuparsi. L’unica cosa, forse, certa, è che, se la destra (smettiamola di chiamarla centrodestra, ormai di centro è rimasto ben poco) arriva nella stanza dei bottoni sparirà il reddito di cittadinanza. Che non ha proprio funzionato benissimo, ma a qualcosa è servito, quanto meno a dare qualcosa a chi aveva di meno. Ci saranno stati degli imbrogli, siamo maestri in questo, ma i soldi del reddito sono andati nella gran parte dei casi a famiglie che avevano meno del necessario. La povertà non è sparita, tutt’altro, ma in qualche maniera si è attenuata, anche grazie al reddito di cittadinanza. Adesso qualcosa bisognerà fare comunque a favore dei meno abbienti, vedremo cosa. Certo non vorremmo vedere allungarsi la fila di chi deve andare troppo spesso ai centri della Caritas per nutrire sé stessi e la propria famiglia. C’è poi da dire che il reddito di cittadinanza ha avuto un pregio da non sottovalutare, anche se proprio su questo si è arriso troppo: è servito a calmierare il livello delle retribuzioni, impedendo che precipitassero. Tante offerte di salari minimi sono state respinte (e questo ha spinto quegli imprenditori, ma sarebbe bene chiamarli solo padroni, ad alzare il livello di quanto erano disposti a pagare) proprio perché l’alternativa non era la fame ma, appunto, il reddito di cittadinanza.
Poco, certo, ma altro non si indovina su quello che potrebbe fare la destra al potere, ammesso e non concesso che poi davvero ci vada. Il punto è che invece servirebbe a tutti avere maggiori certezze, perché, come dicevamo all’inizio, non sapere cosa può accadere aumenta la preoccupazione. E siamo tutti preoccupati per quello che può accadere nel mondo del lavoro. Le difficoltà ci sono e non possono che aumentare, non è sufficiente la crescita, insperata, del Pil a darci serenità, l’inflazione preme, il Covid non recede, la guerra della Russia in Ucraina non accenna a fermarsi. Il pericolo resta quello di un collasso dell’economia, che non regga l’affastellarsi dei problemi e ci trascini nella recessione. Basta una legge di bilancio sbagliata: e il primo compito del nuovo governo sarà proprio quello di varare quella che una volta si chiamava finanziaria capace di sostenere la produzione.
Non preoccupano le relazioni industriali, basta scorrere le pagine del nostro giornale per rendersi conto che le trattative contrattuali marciano a pieno regime, che i contratti si rinnovano, sia quelli di categoria che quelli relativi a singole imprese. Ma anche qui si annidano i problemi, soprattutto per quanto si riferisce alla parte sindacale. Le distanze tra la Cgil e la Cisl non diminuiscono, anzi sembrano aumentare. La decisione, presa giovedì dal direttivo della Cgil, di convocare per ottobre delle manifestazioni di protesta, anche se non si sa ancora contro chi sarà diretta questa forza d’urto, si è già scontrata con l’incomprensione della Cisl. Anche questa non è una novità, i due maggiori sindacati da tempo sembrano veleggiare verso direzioni diverse, quando non opposte, ma questa distanza sembra crescere invece di diminuire. Le due confederazioni sembrano assumere posizioni molto differenti tra loro, decise l’una a dare sostanza alla propria azione con il ricorso alla lotta, condita non a caso di scioperi generali, come quello del dicembre scorso, l’altra a seguire una via diversa, quella del dialogo, del confronto, nella certezza o nella speranza di poter conciliare le opinioni divergenti con le istituzioni. Due linee diverse, laddove sarebbe più che opportuno che il movimento sindacale agisse unito, perché così è più forte.
Massimo Mascini