Proprio sul Diario del lavoro, qualche mese fa, Mimmo Carrieri rilevava come le nostre società post-industriali o post-tutto, non riescano ad essere società post-conflittuali. Nei sistemi democratici di relazioni industriali, il conflitto collettivo rimane, infatti, un elemento essenziale, nonostante si assista ad una riduzione di quella che è la sua manifestazione più estrema, vale a dire lo sciopero.
Si può dire che, nel settore industriale, la crisi economica, oltre ad una contrazione dei livelli occupazionali, abbia portato con sé una diminuzione del ricorso allo sciopero, se non in casi estremamente gravi, quali il pericolo di cessazione dell’attività aziendale, drastiche riduzioni dei posti di lavoro etc.
Nel settore dei servizi – in particolare quelli cosiddetti pubblici essenziali, nei quali il conflitto è regolato dalla legge 146 del 1990 e successive modificazioni – si assiste ad un più reiterato ricorso allo sciopero, il quale tuttavia, come vedremo, non è più un reale indice rivelatore del conflitto, pur mantenendo esso qualche effetto vulnerante, nei confronti dei cittadini utenti dei servizi, già per il fatto stesso di essere annunciato.
Dai dati pubblicati nella recente Relazione della Commissione di garanzia, ai Presidenti delle Camere, risulta che nei servizi pubblici essenziali sono stati effettuati, nel 2021, circa 1.000 scioperi (tra generali, nazionali, locali, dello straordinario, etc.). Tali astensioni, nella quasi totalità, risultano però proclamate da organizzazioni sindacali che non hanno un’effettiva rappresentatività e/o adeguata presenza nei vari settori dei servizi. Altrettanto insignificanti le percentuali di adesione: tanto per fare qualche esempio emblematico, si potrebbero richiamare gli scioperi nazionali della Scuola del 9 e 22 dicembre, proclamati da alcuni sindacati di base, hanno avuto adesioni inferiori al 1%; o uno sciopero regionale del Veneto nel settore delle Poste, al quale hanno aderito solo 2 lavoratori; percentuali più o meno analoghe nella Sanità, o nel settore dei trasporti. Insomma, tranne rarissime eccezioni la partecipazione dei lavoratori alle pur numerose astensioni indette nel settore dei servizi pubblici essenziali, si mantiene, nel migliore dei casi, al di sotto del 10%.
Questo vuol dire che, a parte l’effetto annuncio, il reiterato ricorso alle azioni di sciopero nei servizi pubblici essenziali, non può ritenersi un rivelatore significativo della realtà del confitto, ma semplicemente di una certa esigenza di accreditamento di alcuni sindacati privi di radicamento nei vari servizi. Dunque, anche in tale settore, quasi come in quello industriale, gli scioperi veri e di qualche apprezzabile rilevanza sul piano della riuscita, sono rari, collegati a grandi vertenze e proclamati dai sindacati oggettivamente rappresentativi.
Un discorso analogo deve essere fatto riguardo allo sciopero generale, che dovrebbe essere una forma di mobilitazione sindacale estrema, rivolta all’intero mondo del lavoro, per fermare tutte le attività produttive, pubbliche e private sul territorio nazionale. Azione da intraprendere eccezionalmente per gli effetti dirompenti che da essa dovrebbero derivarne. Val la pena ricordare che nel 1974, uno sciopero generale ben riuscito determinò la crisi del Governo Rumor.
Le grandi confederazioni sindacali – con la sola eccezione di quella effettuata da CGIL e UIL il 16 dicembre scorso, contro la legge di bilancio e le politiche del lavoro – da oltre trent’anni, non fanno ricorso a tale tipo di astensione, essa è invece utilizzata, con un’insostenibile frequenza, da sindacati cosiddetti di base. Sempre dai dati diffusi dall’Autorità di garanzia, si può rilevare come nel 2021 siano stati effettuati ben 18 scioperi generali-nazionali, distribuiti su 7 giornate; erano state 4 le proclamazioni nel 2020, nonostante la pandemia e una moratoria generale degli scioperi, introdotta dalla Commissione per i servizi pubblici essenziali; 14 nel 2019. Tutti con percentuali di adesione insignificanti.
È evidente come il continuo ricorso a scioperi generali, da parte di sindacati che non sono nemmeno presenti in tutte le categorie pubbliche e private (alle quali tale tipo di sciopero è rivolto), abbia ridotto questa astensione ad un ampio e astratto contenitore, di natura economico-politica, all’interno del quale può rientrare di tutto. Per la loro frequenza e i risibili dati di adesione, questi scioperi generali (che tali non sono) rimangono privi di effettiva rilevanza, senza riuscire a canalizzare (citando ancora Carrieri) le insoddisfazioni delle varie categorie sociali. In sostanza, si tratta di un’ulteriore dimostrazione dell’incapacità di alcune organizzazioni sindacali di saper gestire il conflitto, nella sua ampia articolazione.
Il minore ricorso allo sciopero, da parte dei sindacati più strutturati e responsabili non significa, tuttavia, il venir meno del conflitto collettivo che, come si è detto, rimane un elemento essenziale del sistema democratico di relazioni industriali. Anzi, il conflitto tende ad intensificarsi di fronte all’accentuarsi delle diseguaglianze e dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza, resi più evidenti dalla crisi pandemica e dagli effetti della guerra in Ucraina.
Uno dei maggiori studiosi di reazioni industriali del ‘900, Otto Kahn-Freund, ha ben argomentato questa separazione tra sciopero e conflitto collettivo, rilevando come sia quest’ultimo ad animare, principalmente, le relazioni industriali e a costituirne un punto di riferimento irrinunciabile. Certo, lo sciopero rimane un indicatore significativo del conflitto e del potere sindacale, ma non esclusivo e perfino rinunciabile. Anzi, il reiterato ricorso allo sciopero, rivela una riduzione del conflitto nelle sue molteplici manifestazioni; mentre invece se si sciopera meno, il conflitto è destinato ad un maggiore sviluppo. Così, una certa rarità degli scioperi, è un coefficiente di misurazione del grado di efficienza e funzionalità dei sistemi di relazioni industriali di ispirazione pluralista.
A ben guardare, il conflitto collettivo rimane strettamente connesso con la stessa nozione di relazioni industriali e si esprime, più che nello sciopero, nei comportamenti negoziali di confronto e contrapposizione che danno vita a quella che viene definita la contesa industriale. Esso si sviluppa e viene gestito da parte dei sindacati più strutturati, nell’ambito del metodo negoziale, con un confronto a volte aspro, che vede anche contrapposizioni dure, momenti di rottura e di successivo recupero, ma raggiunge alla fine risultati concreti, a volte grazie anche alla mediazione di Autorità pubbliche. Appare significativo come, proprio nel settore dei servizi pubblici essenziali, nonostante il reiterato ricorso a scioperi (come si è detto, irrilevanti) da parte di sindacati minori, il conflitto collettivo, sviluppato nel metodo negoziale, abbia condotto alla conclusione di importanti accordi collettivi, tra i quali: nel servizio di trasporto pubblico locale il 17 maggio 2022; nel trasporto ferroviario, accordo 22 marzo 2022 tra Agens (e Ancp per adesione) e le maggiori organizzazioni sindacali del settore; Ipotesi di Accordo per il CCNL dell’Igiene ambientale, il 18 maggio 2022; l’accordo nazionale nel settore Pulizie e Multiservizi, 9 Luglio 2021; l’accordo collettivo nel servizio di Telecomunicazioni, 21 febbraio 2019; nonché quello relativo a Quadri, impiegati ed operai dipendenti da RAI-Radiotelevisione Italiana, Rai Cinema, Rai Com e Rai Way, del 9 marzo 2022.
In conclusione, si può dire che la capacità di mobilitazione delle grandi organizzazioni sindacali, più strutturate e rappresentative, si misuri oggi nella loro capacità di sviluppare maggiormente quello che Gino Giugni chiamava il conflitto latente, rispetto al conflitto palese (il ricorso allo sciopero). In questo modo viene salvaguardato e accresciuto il ruolo dell’autonomia collettiva, al riparo da eventuali interventi esterni (magistratura, autorità amministrative, etc.). Così, anche a fronte della mancanza di criteri certi per una verifica della rappresentatività sindacale, questa capacità di mantenere la contesa industriale principalmente sul piano del confronto negoziale, segna la linea di demarcazione tra i soggetti che sono i veri protagonisti del conflitto collettivo e della sua gestione e regolamentazione; rispetto ad altri soggetti che sono, invece, protagonisti dello sciopero tout court, senza un effettivo insediamento nelle categorie lavorative e, spesso, senza neanche un ruolo nella contrattazione collettiva.
Non solo, configurare il ricorso allo sciopero come una opzione finale alla quale ricorrere solo dopo avere percorso infruttuosamente tutte le possibilità offerte dal confronto negoziale, significherebbe restituire serietà e rigore a tale diritto costituzionale, che rimane uno strumento fondamentale del nostro Ordinamento democratico. È evidente, infatti, come un inflazionato ricorso a tale azione collettiva finisca poi, nei fatti, per depotenziarne il ruolo.
* Come sempre, le opinioni in questo blog sono espresse a titolo personale, come studioso della materia.
Giovanni Pino