Appare positiva quella del governatore Visco di intervenire con una tantum in grado di aiutare il potere di acquisto senza accendere uno spirale con l’inflazione; lo è quella che avanza l’idea di una redistribuzione fiscale dalla rendita al lavoro insieme ad un’azione contro il lavoro povero e la deregolamentazione del mercato del lavoro; lo è quella di chi difende la ragione stessa di un sindacato, “il contrattare” e propone una convergenza di volontà per poter affrontare con Governo e parti sociali tutto il quadro delle scelte economiche e sociali ormai stressato e logorato dalla pandemia e dalla guerra; così come è positiva quella di chi propone di intervenire robustamente per la riduzione del cuneo fiscale, mobilitando almeno un punto di Pil. Come è positiva anche la raccomandazione che viene dall’Europa contro il dumping sociale, attraverso la fissazione di criteri sui salari minimi e sui livelli di contrattazione.
Tutti buoni propositi dunque, però tutti avanzati prendendo a riferimento un quadro temporale troppo ravvicinato e troppo congiunturale. Quello che ancora stenta a farsi strada è cosa fare per il dopo e non solo per l’oggi, pur sapendo che il dopo non è di là da venire, ma già in atto. E’ come se tutto ciò che sta succedendo da tre anni, sia una parentesi, chiusa la quale, tutto possa tornare com’era. Sarebbe bello, ma non è e non sarà cosi.
Quando il governatore Visco avanza la tesi di un mondo che dovrebbe tornare alla globalizzazione dei commerci e non alla “divisione per blocchi”, sembra come rifiutare di constatare che, nel frattempo, c’è stato un terremoto, che il mondo è cambiato e che davanti a noi non c’è più quello che c’era prima e che i prossimi anni saranno quelli della ricostruzione, ciascuno intento a rimediare ai danni che ha subito e che ancora sta subendo.
Il governatore, ovviamente, questa realtà l’ha ben presente, visto l’uso e l’abuso della parola “incertezza” citata ben undici volte nelle “Considerazioni finali”.
Perché proprio l’incertezza sarà la costante almeno per questo decennio che, come affermano gli analisti di macroeconomia, sarà segnata da due fattori principali: la concorrenza fra aree sistemiche unita a fenomeni di convergenza a posteriori, cioè basata su azioni non convenute da accordi, bensì fatte in autonomia.
Competizione e globalizzazione saranno cioè complementari, ma non più nella precedente modalità per il semplice fatto che si è spezzato sul piano planetario il rapporto tra materie prime e prodotto finito.
Le supply chain ovunque si stanno accorciando su scala di macrosistemi territoriali, mentre i possessori di materie prime, in un mercato non più aperto, le rincarano e le forniscono in modo più lento e irregolare.
La convergenza poi sulle grandi sfide del futuro del pianeta, come quella dei cambiamenti climatici, sta avvenendo non più convenendole in grandi accordi generali, con i vincoli connessi, ma autodeterminandole. Dall’India alla Cina, dall’Indonesia all’Australia si è cioè ben consapevoli che bisognerà diminuire la dipendenza dalle fonti di energia fossile, ma intendono definirne da soli, tempi e modalità.
In tutta quella parte del mondo è già partita la transizione energetica verso le fonti rinnovabili e ancora di più di gas, ed è proprio questo, il fatto cioè che la domanda di gas sia ora diventata planetaria e non più solo del mondo occidentale, che ne ha fatto quintuplicare il prezzo. La guerra poi è stata un’aggravante, non la causa, già preesistente.
E per il petrolio la stessa logica sia pure per ragioni diverse. L’Opec sa bene che nel giro di un decennio, la domanda sarà calante e, per questo ora sta, massimizzando il più possibile i ricavi. Dunque il rincaro delle materie prime e dei prodotti energetici saranno una costante, la cui unica possibilità di discesa è quella, non augurabile, di un mondo che finisce in recessione e fa precipitare la domanda. Dunque un’inflazione alta, da costi e non da mercato, sarà la realtà con cui fare i conti non solo nel breve periodo, ma nel medio e forse lungo. E, in questa realtà, non tutte le aree soffriranno allo stesso modo.
L’Europa è il macrosistema più esposto al mondo, perché è un’area di trasformazione di beni, largamente priva di materie prime e di combustibili fossili.
Se questo è vero, come lo è, allora l’interrogativo che s’impone è: si può andare avanti a colpi di una tantum, di voucher, di blocco temporaneo delle accise o di provvedimenti temporanei sul piano fiscale?
Quando i percettori di reddito fisso, da lavoro o da pensione, si troveranno nei prossimi anni con una costante riduzione del loro potere di acquisto, si può prospettare solo una tutela (e ben venga) di uno zoccolo, come quella appunto di un salario minimo indicizzato come nelle previsioni della direttiva?
E’ chiaro che bisogna essere capaci di andare ben più a fondo e tocca alle parti sociali e al governo esserne consapevoli e protagonisti.
In un quadro cioè di cambiamenti strutturali e non congiunturali, è il domani che bisognerà iniziare a costruire e non solo la speranza di un miracolo che ripristini il passato.
La serie di cose da fare sono molte, ma qui ne voglio citare solo due che appaiono certamente le più dirimenti. La prima riguarda di quale sia il livello di intervento più adeguato. Il Governatore Visco non ha avuto dubbi: questo livello non è nazionale bensì europeo e, per questo ha indicato la via di un Recovery strutturale.
Per quel che conta convengo, ma con una variante esiziale. Parlare di rendere strutturale il Recovery quando non abbiamo ancora dimostrato di riuscire a spendere il primo, sembra come voler buttare il cuore oltre la siepe. Non è un altro Recovery generale ed enciclopedico, quello che oggi serve, ma capire quale siano invece i singoli capitoli dei Pnrr su cui bisognerebbe continuare ad investire alla luce del nuovo scenario di guerra intervenuto. Quello della coesione, dell’educazione e della protezione sociale sicuramente lo è. E’ quindi questo è il terreno su cui sarebbe urgente e necessario aprire il confronto in Europa.
Come? Semplicemente proponendo di dare seguito a ciò che la Commissione aveva già individuato nel 2020 come emergenza dando vita allo Sure, con un fondo di cento miliardi. Quello strumento contro la disoccupazione, la povertà e per sostegni al mercato del lavoro fu un vero e proprio successo tanto da costringere la Commissione a tornare sul mercato per rifinanziarlo, vista le richieste copiose di tutti gli Stati Membri.
Ma ora l’emergenza è acuta almeno, se non di più, come quella di due anni fa e dunque è questa la strada da battere. Nessun Paese è colpevole dell’aumento dell’inflazione le cui cause sono esogene, ma tutti i lavoratori europei ne sono vittime, visto che il tasso d’inflazione dell’eurozona è superiore addirittura a quello italiano.
Dunque urgentemente un nuovo Sure, lasciando ai singoli Stati Membri di deciderne, nell’ambito dello stanziamento ricevuto, le modalità di miglior impiego rispetto alla propria realtà. Per noi sarebbe, ad esempio, un aiuto straordinario per poter abbassare davvero e seriamente il cuneo fiscale.
D’altronde la sola alternativa dei singoli Paesi sarebbe quella di intervenire attraverso scostamenti di bilancio. Ma questa scelta comporterebbe che ciascun Paese sarebbe costretta a ricorrere al mercato per finanziarsi con l’aumento dello spread e quindi del servizio al debito.
Il disordine finanziario che ne conseguirebbe proprio nel momento in cui tutte le Banche centrali sono costrette ad aumentare i tassi di sconto, costringerebbe la Bce ad un intervento a posteriori alla fine ben più costoso. Però il Sure del 2020 è stato uno strumento per aiutare la popolazione attiva. Ma ora l’inflazione mette in crisi non solo i salari ma anche le pensioni. Ma per la popolazione anziana l’aiuto europeo sarebbe, almeno per il 2023, addirittura a costo zero.
Infatti, durante la pandemia ai cento miliardi del Sure per i lavoratori, ne vennero stanziati quasi altri cento (91 per la precisione) per le persone più fragili utilizzando però un fondo sbagliato com’era il Mes. L’accesso possibile a quell’aiuto scade al 31 dicembre di quest’anno e di fatto, l’errata allocazione, lo ha fatto diventare un residuo passivo.
Trasformarlo ora, senza aggravio di bilancio, in un fondo, in un secondo Sure, specifico per la terza età, sarebbe la soluzione più semplice ed è paradossale come né a Bruxelles né in nessuno Stato Membro qualcuno l’abbia finora proposto.
Secondo: il salario da contratto. Qui c’è un’anomalia che andrebbe presa di petto. L’Italia è il solo Paese europeo (tranne l’Irlanda) che per i contratti nazionali, utilizza la cadenza triennale. Ma se ieri questa rappresentava una scommessa di una qualche audacia, oggi è semplicemente un no sense.
Non c’è nessun premio Nobel in economia che sia in grado di prevedere cosa succederà non fra tre anni, ma nemmeno fra diciotto o ventiquattro mesi. D’altronde l’accordo su quella struttura contrattuale avvenne in una realtà economica distante anni luce dalla situazione attuale.
Esempi di come e cosa fare ce ne sono tanti. Quello più efficace viene dalla Germania dove vige lo sdoppiamento dei contratti, con l’allungamento della parte normativa per dare stabilità sia ai costi d’impresa che ai diritti dei lavoratori, e invece l’accorciamento della parte salariale, diretta o indiretta (v. orario).
La contrattazione annuale del salario ha avuto il vantaggio di proteggere anno per anno il potere di acquisto avendo a riferimento un’inflazione reale e non presunta. Ovviamente non con un automatismo (c’è solo in Belgio), ma con la contrattazione settore per settore, valutando tutte le diversità merceologiche e di mercato.
Dare però la certezza che i salari saranno contrattati anno dopo anno in un Paese come il nostro con una base industriale di piccole e piccolissime imprese, darebbe una sicurezza straordinaria ai lavoratori.
Ovviamente conosco le obiezioni. Quella dell’esercizio del secondo livello è stata sempre, in campo sindacale, la principale. Non va sottovalutata ma nemmeno enfatizzata. In molti Paesi dell’Europa continentale, compresa la stessa Germania, la cadenza annuale del salario non è mai stata ostativa alla contrattazione aziendale, la quale si è fatta e si fa, non perché un intervallo temporale lo consente, bensì ogni qual volta in un’ impresa se ne presentano reciprocamente le condizioni. E’ cioè una contrattazione non a cadenza data. Si interviene ogni qual volta ci sia una modifica organizzativa che muta i profili professionali, oppure per ogni nuovo obiettivo di valore che l’azienda intende perseguire contrattandone le modalità fino a traguardi di possibili plusvalore ulteriore da cercare di raggiungere. Si contratta l’incremento non medio di settore, ma quello specifico di produttività rispetto agli investimenti in nuova tecnologia e in innovazione di quella impresa, fino al corollario per negoziare una copartecipazione ai benefici di bilancio. E si contratta ovviamente anche il rapporto tra prestazione e eventuale incremento aggiuntivo di welfare aziendale.
Insomma si contratta e negarlo corrisponderebbe a una caricatura un po’ provinciale. In Germania, ma non solo, c’è il salario minimo di contratto (12 euro) e non di legge e il contratto minimo sui salari. I metalmeccanici con un inflazione prevista al 7,9 per il 2022 hanno presentato una piattaforma chiedendo il 7 percento, che prima ancora di essere valutata dalla Gesamtmetall, la loro Federmeccanica, lo è stato dalla Bundesbank che l’ha apprezzata, sul versante della tenuta dei consumi.
Ad oggi noi non abbiamo né il salario minimo né il contratto minimo.
Non sarebbe forse blasfemia rifletterci
Walter Cerfeda