Juana parlava con le nubi. Per conversare con loro bisogna arrampicarsi sui monti o sui rami più alti degli alberi. “Io sono una nube. Noialtre nubi abbiamo facce e mani. Piedi no”. Juana gironzola per il mercato dei sogni. Le venditrici hanno disteso i sogni per terra, su grandi pezzi di stoffa. Arriva al mercato il nonno, molto triste perché è da tanto tempo che non sogna. Juana lo prende per mano e lo aiuta a scegliere i sogni, sogni di marzapane o di cotone, ali per volare dormendo, i due se ne vanno così carichi di sogni che non ci sarà notte che possa bastare. Juana fantastica. E impara a leggere, vuole studiare. Era meglio se nascevi stupida, povera la mia figliola saputella, le dice la mamma.
La scelgono come dama di corte, nel palazzo del viceré. A 16 anni, decide di farsi suora. Avrebbe voluto studiare all’università i misteri del mondo, ma le donne nascono condannate al telaio da ricamo e al marito che viene scelto per loro. E allora, meglio carmelitana scalza. Nella sua cella, la notte, prega e scrive. Scrive, scrive. Poesie, lettere, commedie, canzoni. Ma il confessore le ordina di bruciare tutto, di ignorare ciò che sa e di non vedere ciò che guarda. L’Inquisizione incombe. Solo perché il volgo celebra i suoi versi si crede un’eletta! Costei insudicia la purezza della fede! Fuggivo da me stessa quando presi l’abito, ma, povera me, portai me stessa con me. Vergognati! Mortifica il tuo cuore, ingrata! Chiede perdono. Sceglie il silenzio, o lo accetta. Le sue vele lievi e le sue chiglie pesanti non navigheranno più sul mare della poesia. E così l’America perde il suo migliore poeta. Il corpo sopravviverà poco a questo suicidio dell’anima.
Ecco. Eduardo Galeano, in “Memoria del fuoco” (edizione Bur), racconta così, le frasi riportate sono sue, la storia di Juana Inés de Asbaje, divenuta Juana Inés de la Cruz (Città del Messico, 1648-1695). Una delle tante vicende che intessono la formidabile trilogia dello scrittore uruguaiano. Un insieme di leggende, di miti e di storie. Un immenso arazzo letterario dell’America Latina, dal 1492 al 1986. Favole precolombiane, memorie degli Indios, nefandezze dei conquistadores, tentativi di riscatto, abomini delle dittature, scempi, sfruttamento.
Rileggerlo, in questa era di caos, aiuta a ritrovare il bandolo della matassa. E a tessere la trama dell’esistenza, lacerata dalla distruzione della natura, dalla pandemia, dalla guerra, dalla crisi economica, dall’incertezza fisica e psicologica. E a capire quanto la bramosia di potere e di ricchezza abbia devastato e continui a devastare la Terra. Le persone in fuga a causa di conflitti, sopraffazioni e persecuzioni sono oltre cento milioni, una volta e mezza la popolazione italiana, l’un per cento di quella mondiale.
A gennaio, il rapporto Oxfam calcolava che ogni quattro secondi un essere umano muore per la fame, la sete, la mancanza di cure, la violenza. Provate a contare. Uno, due, tre, quattro. Via un altro.
L’invasione dell’Ucraina ha reso ancora più insostenibile una situazione tragica. L’Africa è un calderone infernale. L’assalto ad una chiesa in Nigeria è solo l’ultimo terribile episodio in ordine di tempo. Poi ci sono l’Afganistan, la Siria, lo Yemen, l’Iran, l’Iraq, la Palestina, la Libia. L’elenco del dolore, della sofferenza e dell’ingiustizia si allunga ogni giorno.
Le vene aperte, Galeano sarebbe d’accordo, non sono solo quelle dell’America Latina, che in ogni caso continuano a sanguinare. Lì, tra l’ombra paurosa delle foreste amazzoniche e la luce accecante dei teocalli, c’è in più qualcosa di indicibile. “La donna e l’uomo sognavano che Dio li stava sognando. Dio li sognava mentre cantava e agitava le maracas, avvolto in fumo di tabacco e si sentiva felice e insieme turbato dal dubbio e dal mistero”: così avvenne la creazione secondo gli indios Makiritare. “I giorni partirono da oriente e si misero in cammino”, dicevano i Maya. I toltechi e gli aztechi furono illuminati dal sole del movimento: “Ha gli artigli e si nutre di cuori umani”.
“Ebbi per maestri libri muti, e come unico condiscepolo un calamaio”, ammetteva Juana. E per amiche, le nubi. Con le quali parlava dopo essersi arrampicata sui monti o sui rami più alti degli alberi.
Marco Cianca