La dinamica delle retribuzioni si è pericolosamente fermata, ma non sembra che vi si presti molta attenzione. Questa è tutta concentrata sulle diverse transizioni che attraversa la nostra economia, sui prodotti energetici il cui prezzo continua a crescere, sulla produttività che non decolla, sulla necessità di rimodellare le catene produttive. Eppure, dall’andamento dei salari dipende il benessere e la tranquillità di milioni di persone, le stesse che mandano avanti il mondo della produzione. Confindustria, governo e sindacati fanno un gran parlare della necessità di tagliare il cuneo fiscale, la distanza tra quanto arriva in busta paga e quanto questa costa davvero alle imprese, ma senza grandi risultati. A parte il fatto che, come ci ha spiegato Alberto Brambilla, tagliare il cuneo fiscale significherebbe ridurre la pensione futura dei lavoratori e mettere in grave crisi il sistema previdenziale a ripartizione in essere, e quindi sarebbe una non soluzione, nessuno mette nel conto l’esigenza di una ripartenza della dinamica salariale. I sindacati in verità lo chiedono, se necessario lo strillano, ma la risposta è debole, quando c’è.
Se al livello interconfederale il problema salariale non sembra suscitare molta attenzione, per fortuna le categorie si muovono in autonomia. Gli assicurativi hanno avanzato una richiesta di 210 euro in più al mese, i chimici farmaceutici una di 180 euro. Non conosco abbastanza la realtà del mondo assicurativo, ma so bene che se i chimici chiedono 180 euro lo fanno perché hanno sondato molto bene gli umori delle aziende associate a Federchimica e sanno che non si tratta di una richiesta fuori le righe. Le aziende chimiche e farmaceutiche conoscono i problemi dei propri dipendenti e la lunga abitudine al dialogo e al confronto le aiuta a cercare soluzioni sostenibili con l’esigenza di non aggravare troppo i loro costi.
Del resto, anche i limiti evocati da Confindustria per gli accordi presi, che non consentirebbero aumenti salariali troppo elevati, in realtà non esistono. Perché è vero che il Patto della fabbrica, firmato da Confindustria e sindacati nel 2018, prevede l’utilizzo del parametro dell’Ipca, per cui i contratti possono far recuperare solo l’inflazione non dovuta alla crescita dei prodotti petroliferi importati, ma è anche vero che quell’accordo prende in considerazione il Tem, il trattamento economico minimo, ma anche il Tec, il trattamento economico complessivo: il che significa che i minimi possono salire non più di tanto, ma la retribuzione nel suo complesso può crescere quanto si crede opportuno.
Il punto però non è quello che le aziende potrebbero fare, ma quello che fanno. E non sempre fanno quello che forse sarebbe bene fare. Cristina Casadei, con la sua abituale precisione e tempestività, ci ha informato su Il Sole 24 ore, di un sondaggio effettuato dalla WTW (Willis Tower Watson) su 53 grandi imprese, dal quale risulta che la quasi totalità di esse non prevede per il 2022 interventi straordinari per far crescere i salari. Forse qualcosa verrà nel 2023, ma per quest’anno non si prevedono crescite. Quello che sconcerta è la motivazione di questo comportamento delle imprese, le ragioni per cui i salari italiani restano tra i più bassi in Europa, certamente tra i paesi più industrializzati, gli stessi con cui ci confrontiamo sui grandi mercati.
E in merito vale quanto ha riportato sul Corriere della sera Dario Di Vico quando, riprendendo uno studio della Direzione studi e ricerche di Intesa San Paolo, ha spiegato che le retribuzioni non crescono in Italia a causa della presenza sul mercato del lavoro di troppe “risorse inutilizzate”. In pratica affermando che se i salari non crescono è perché le aziende sanno che esiste un ampio bacino di disoccupati che potrebbero prendere il posto dei lavoratori che decidessero di abbandonare il lavoro perché le retribuzioni sono troppo basse.
Nessuno mette in dubbio la validità dell’analisi di Intesa, ma restiamo senza parole di fronte a questa visione così sfacciatamente mercantilistica delle ragioni della dinamica salariale. Sembra di stare in un altro secolo. Le imprese, le grandi imprese, non pensano di aumentare i salari perché tanto c’è un esercito di disoccupati pronto a subentrare. Cadono nel nulla tutti i ragionamenti sul valore dell’individuo, sull’importanza da dedicare alla persona, sull’importanza e il valore che per ogni azienda rappresentano le proprie risorse umane, che appunto sono una risorsa e non un bene materiale.
Il lavoro non è e non deve essere una merce ed è incredibile che non si tenga nel dovuto conto l’apporto di competenze, ingegnosità, dedizione che i lavoratori sono in grado di portare alla propria azienda. Tutti i ragionamenti di decenni sull’etica aziendale cadono nel nulla in questo modo. E’ un mondo, questo, diverso da quello abituale, e non ci piace. Preferiamo credere che quelle analisi vengano da un freddo ufficio studi, che non vive la realtà delle imprese, che ignora l’apporto fondamentale che i lavoratori possono portare per far crescere la produttività del lavoro. Un disoccupato assunto perché costa poco, quanto potrà dare all’azienda che per questo lo assume? Crediamo davvero poco. Non sono questi i criteri sui quali deve reggere una società industrializzata che mira al benessere generale e alla coesione sociale.
Massimo Mascini