“E’ meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature”, questa frase di Sandro Pertini andrebbe sempre tenuta a mente, non certo per scegliere il meno peggio, ma per non sottovalutare il costo di eventuali limitazioni del valore della libertà. La guerra in Ucraina mantiene un potenziale minaccioso nei riguardi della pace mondiale che rimane denso di pericoli. Purtroppo una guerra quando inizia, specialmente se è una guerra di aggressione, e quella di Putin lo è, detta il modo di procedere fino al momento in cui un qualsivoglia esito militare lascia spazio ad una nuova fase di tregua o del negoziato. Finora nella tragica storia delle guerre scorciatoie non ce ne sono state. Provarci comunque con determinazione “europea” per creare le condizioni utili ad una tregua rimane indispensabile. L’Europa ha cominciato a capirlo ma con troppa lentezza. Sarebbe il caso però di porsi almeno anche un’altra domanda: è sufficiente ribadire che il valore della libertà fa premio su tutte le altre considerazioni, oppure occorre a maggior ragione non smarrire nel frattempo anche quell’insieme di valori che potremmo definire come un necessario umanesimo al fine di esercitare una grande pressione sul teatro di guerra per sostituirlo con il ritorno al confronto? Ed il movimento sindacale europeo può fare qualcosa in merito, oltre ad impegnarsi come si sta facendo in una importante azione umanitaria? E’ infatti rilevante, senza rinunciare ai propri valori, contrastare i fenomeni peggiori di questa situazione: la propaganda fuorviante ed eccessiva, il trascendere nei toni, il fomentare odio nei riguardi di chi la pensa diversamente, ma soprattutto confutare la peggiore delle accuse che ci viene rivolta dal mondo russo: l’Occidente è in declino, la sua democrazia è decadenza, il suo egoismo abbarbicato al benessere raggiunto è fonte di evidente debolezza.
In un certo senso dovremmo proiettare le nostre analisi su un campo più avanzato: quello relativo al tipo di sviluppo che la lunga recessione del 2008, la pandemia e la guerra ucraina va ricostruito e per certi versi cambiato anche in profondità, a partire dalla concentrazione di ricchezza finanziaria e dalle esternalizzazioni delle produzioni che hanno reso la politica economica soggiacere ad oltre logiche di tipo liberista. L’economia reale di oggi è inchiodata in una terra di nessuno, per abusare di termini militari. Ed i problemi che abbiamo nei prossimi mesi da affrontare non riguardano solo l’approvvigionamento energetico ma la strategia da perseguire per evitare una nuova catastrofica recessione che per ora non si delinea ma che potrebbe, complice la situazione internazionale, caderci addosso.
Siamo preparati a rivedere lo scenario economico e sociale nel quale ci si sta muovendo? Lo è il governo che appare sempre più essere il…solo Draghi? Lo è la politica?
Ed ancora sono domande sensate oppure soffrono di allarmismo?
I dati ci possono aiutare a capire la situazione. Partiamo dal Pil che in questo momento lo stesso governo fatica a decifrare. Intanto il Fmi prevede per l’Italia un aumento nel 2022 del 2,3%, ma si tratta di una stima fragile e comunque al di sotto di due esigenze fondamentali da soddisfare: tenere a bada il debito pubblico e conservare occupazione e produzione.
Intanto diamo un’occhiata al tema energia. E’ tutto davvero nelle mani di Putin? Alcuni analisti rilevano che in realtà l’esplosione dei prezzi è stato il rialzo della raffinazione e quindi il prezzo dei prodotti finali, quelli che consumiamo. Si cita a tale proposito l’esempio della quotazione delle raffinerie alla borsa di New York in forte ascesa. Anche perché una parte delle raffinerie era sulla strada della chiusura anche per effetto delle politiche di transizione energetica. Risultato: si sposta il peso della situazione di crisi sulla domanda come avveniva decenni orsono. Ma siccome nel frattempo l’inflazione marcia a grande velocità, è giocoforza ridurre una parte della stessa domanda con effetti negativi sulla produzione e sul lavoro. Agire sul lato della offerta richiederebbe inoltre una rivisitazione delle regole internazionali, Opec compreso, ma in una fase di forti tensioni ciò appare assai arduo. Eppure la via dovrebbe essere quella di rendersi conto che non si può credibilmente risolvere questo problema andando a rifornirsi dove si può in eterno. Sarebbe più saggio cominciare a lavorare a proposte di cooperazione sul piano della energia che disegnino per il futuro soluzioni che tengano conto di una comunità mondiale ormai cambiata e che imporrebbe scelte diverse da quelle egemoniche o di pura convenienza. Senza dimenticare che dovremmo ormai aver compreso che un cammino frettoloso nella transizione energetica crea più problemi che risposte.
Si tratta di suggestioni, è vero, ma non trascuriamo el ricadute di questi problemi. La Fed negli Stati Uniti pare orientata a gestire un andamento dell’economia nel quale ad un parziale “sacrificio” della ricchezza custodita dalla borsa americana corrisponderebbe una frenata anche dell’occupazione. In Europa siamo in grado di fare altrettanto? E’ giusto procedere in questo modo? Cosa si fa allora per trovare un altro percorso? Stessa domanda dovremmo rivolgerla al nostro governo. Il motivo è semplice per noi che facciamo sindacato: dobbiamo tenere presente che comunque ragioniamo in un contesto di sempre più evidente stagflazione. Il peggiore per i redditi del lavoro dipendente, per la ripresa produttiva e per il lavoro. Intanto lo spread risale e il debito pubblico, se la crescita flette in modo consistente, resterà attestato al picco sempre pericoloso al quale è arrivato. E’ mai possibile, allora, che le maggiori attenzioni vengano riservate alle elezioni amministrative con i posizionamenti politici sull’invio o meno delle armi in Ucraina, mentre non si affrontano con decisione le prospettive economiche del Paese che riguardano famiglie ed imprese molto da vicino? Potrebbe essere un grave errore, anche perché in Europa non solo si è lontanissimi dalla possibilità di riscrivere come è necessario le regole “congelate” con la pandemia ma avremo a che fare con la Bce che tornerà a quello che era il suo principale “mestiere”, ovvero contrastare l’inflazione. Certo, c’è l’incubo della guerra ucraina, ma questo non vieterebbe all’Italia comunque di fare proposte per definire nuovi parametri pere le economie ed i bilanci pubblici anche al fine, male che vada, di offrire all’economia reale almeno un quadro meno incerto dei propositi del nostro Paese.
E sappiamo bene che al di là di tutte le riflessioni che si possono fare una cosa è certa: l’incertezza è tale che colpirà le intenzioni di investimento e favorirà altro lavoro precario.
Abbiamo gli strumenti per fronteggiare queste emergenze? Teoricamente si potrebbe ragionare su schemi di partecipazione e di concertazione rinnovati e legati non solo a progetti ma anche alla tempestica dei confronti ed ai risultati da raggiungere senza che essa divenga una logorroica ed inutile presa d’atto di quel che fa o… rinvia il governo di turno. Ma anche in questo caso è necessario uscire dall’intorpidimento che la discussione nella politica e nella società pare oggi soffrire. Per il movimento sindacale insomma c’è molto da fare, molto da incalzare, molto da insistere sulle proposte che abbiamo da tempo avanzato. Ad esempio sulla questione salariale che inevitabilmente si affermerà come una delle questioni più spinose per il futuro è tempo di tornar a discutere di cuneo fiscale come del resto al Uil aveva proposto e rilanciato più volte. Non solo: ma ancora più importanti sono oggi politiche attive del lavoro senza le quali sarà molto difficile reggere all’evoluzione della situazione economica stressata dalle tensioni internazionali. E sono solo due delle questioni più evidenti che le conseguenze della guerra ucraina ci pongono davanti. Ma prima di tutto bisogna tornare a considerare quelle che sono le priorità. E su questo punto il ritardo che si accumula sta diventando sempre più rischioso.
Paolo Pirani