Nel nostro codice penale esiste il reato di estorsione che il codice penale all’articolo 629 così definisce: Chiunque, mediante violenza o minaccia), costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.“ In presenza di aggravanti che il codice penale indica espressamente, la pena è fortemente aumentata.
Più volte la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto che ravvisa gli estremi dell’estorsione nella condotta del datore di lavoro che, approfittando delle condizioni del mercato del lavoro, costringa il lavoratore subordinato, con minaccia anche larvata di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi deteriori. Il lavoratore richiamando questo principio giurisprudenziale della Corte di legittimità ha fatto ricorso contro la sentenza, sia del Gup che della Corte di appello che aveva assolto il datore di lavoro dal reato di estorsione.
Il fatto di rilevanza penale è stato ricostruito dal giudice delle indagini preliminari nel seguente modo: il dipendente prestava attività lavorativa oltre l’orario di lavoro, in maniera sostanzialmente ininterrotta (anche per 20 ore al giorno), espletando compiti non inerenti alle sue mansioni, subendo le continue vessazioni aziendali senza che gli fosse corrisposta la retribuzione delle ore lavorative effettivamente espletata. È emerso processualmente che il datore di lavoro aveva posto al lavoratore la seguente alternativa: accettazione dell’esecuzione di ore di lavoro non retribuite o “libertà” di lasciare l’impiego. I giudici di merito avevano ritenuto che questa impostazione datoriale non avesse alcun connotato minaccioso perché il tutto era rimesso definitivamente alla libertà decisionale del lavoratore che poteva o non poteva accettare l’alternativa a lui posta. Per la Corte di appello, che aveva assolto il datore di lavoro, L’alternativa posta dal datore di lavoro,-esecuzione di ore non retribuite a fronte del diritto di andar via- rassegnando le dimissioni, non poteva interpretarsi come minaccia di licenziamento, neppure larvata. La Corte di appello ha così escluso la sussistenza della minaccia “facendo leva sulla possibilità di scelta lasciata al lavoratore dal datore di lavoro, quanto alla possibilità di proseguire nel rapporto di lavoro o di rispettare le (ingiuste) condizione di lavoro, siccome descritte” .
La Corte di Cassazione ha criticato duramente questa decisione della Corte di appello perché “l’argomentazione spesa dai magistrati del gravame non considera che la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che ove questa dovesse essere una di quelle rappresentate e pretese del soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato. Proprio da tale caratteristica, propria della minaccia, discende che l’estorsione è il tipico reato per la cui perpetrazione è richiesta la cooperazione della vittima mediante la coartazione della sua libertà”. Il ragionamento della Corte di appello che ha portato all’assoluzione del datore di lavoro imputato è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione semplicemente “fallace”.
Per la Cassazione è del tutto irrilevante che nelle comunicazioni del datore di lavoro non si minacci esplicitamente il licenziamento ma si dica solo che il lavoratore “è libero di andar via”.
La Corte di Cassazione ha ribadito che “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che approfittando della situazione del mercato a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe il lavoratore, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguate alle prestazione effettuate”. Il reato si realizza nel “momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che riveste rispetto al lavoratore subordinato e alla strutturale condizione a lui sfavorevole della prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro”.
Si è in presenza del reato di estorsione per il “fatto che il datore di lavoro coarti il lavoratore nel senso di accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia dell’interruzione del rapporto di lavoro, restando indifferente il contesto socio ambientale e familiare in cui tale coartazione viene attuata”. (Cassazione, seconda sezione penale sentenza numero 3724 pubblicata il 2 febbraio 2022).
La Corte di Cassazione ha così annullato la sentenza di assoluzione del datore di lavoro rinviando la causa alla Corte di appello competente in sede civile poiché l’annullamento della sentenza aveva ad oggetto soltanto l’azione civile, rimanendo fermi gli effetti penali della sentenza di assoluzione.
Con questi principi affermati dalla Cassazione, mutate le cose che sono da mutare, non è difficile configurare in tanti comportamenti datoriali che prima facie appaiono essere neutri, il reato di estorsione. Il datore di lavoro occorre che usi cautela nella gestione del personale e nell’assunzione delle sue decisioni sulla gestione dei rapporti di lavoro avendo cura di non porre il suo prestatore d’opera nell’alternativa di dover subire ingiustamente comportamenti ingiusti e di prevaricazione.
Biagio Cartillone