Gli occhi di giaiétto sembrano assorbire la luce. Non hanno alcun riflesso, due pietre nere, fisse al di là del tempo e dello spazio. La testa coperta da uno scialle scuro, indosso una veste rossa con arabeschi gialli, i cui colori stinti ricordano un tappeto calpestato dal dolore. Le mascelle sono serrate, le labbra violacee, le gote tese e secche, le lacrime un arido ricordo. L’espressione corrucciata esprime una bellezza senza età. La donna potrebbe avere venti, trenta, cinquanta, mille, diecimila anni. Piangeva per la distruzione di Ur, era seduta sotto le mura di Troia in fiamme, si nascondeva tra le rovine di Cartagine. Ora fugge da Semera,
È una dei 350 mila sfollati nella regione degli Afar, Etiopia. la zona più devastata dal conflitto tra il governo federale e il Fronte popolare di liberazione del Tigray. Scappano, abbandonano le loro case, in cerca di una qualche salvezza. Non hanno cibo, manca l’acqua, dormono in terra. Le organizzazioni internazionali ammettono la propria impotenza. I convogli umanitari non riescono a passare tra le linee dei combattenti.
Ancora una volta l’Osservatore Romano sbatte in prima pagina una foto che ghermisce l’anima. Nessun pittore sarebbe capace di dipingere un volto così dolente e impietrito. Il volto della guerra. Delle altre guerre, quelle lontane dai nostri interessi. Quando gli Stati Uniti decisero di eliminare il loro ex alleato Saddam Hussein, scatenando l’inferno in Iraq, una suora affermò che se in Kuwait avessero coltivato cavoli invece di estrarre petrolio, l’operazione Desert Storm non sarebbe nemmeno stata concepita.
Lo Yemen è devastato da un conflitto che in sette anni ha provocato oltre 300 mila vittime, tra cui diecimila bambini (nessuno è in grado di tenere il conto esatto della mattanza). Le bombe, la carestia, le malattie, la siccità esigono ogni giorno il loro tenebroso tributo. Quattro milioni di persone vagano disperate. La peggiore crisi umanitaria del mondo, la definisce l’Onu, che però non ha alcuna capacità di mettere fine ad un a tale tragedia.
Poi ci sono l’Afghanistan, la Libia, la Siria, il Nagorno Karabak, la Palestina, i tanti golpe e contro golpe che insanguinano l’Africa. La produzione e il commercio delle armi non sanno cosa significhi la parola crisi. Ma anche i cimeli possono servire alla bisogna.
Nel 2017, la geniale Hito Steyerl scrisse “Duty Free Art”, edito in Italia da Johan&Levi con il sottotitolo “L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria”. Il primo capitolo del saggio inizia con questa sorprendente descrizione: “C’è un carro armato su un piedistallo. Esce fumo dal motore. È un carro armato sovietico da battaglia (denominato IS3 in omaggio a Iosif Stalin) e un gruppo di separatisti filorussi a Kostjantynivka, nell’Ucraina orientale, lo sta riconvertendo, lo fanno scendere dal basamento sul quale stava come monumento alla Seconda guerra mondiale e lo mandano direttamente in battaglia. Un miliziano locale riferirà in seguito: ha attaccato un checkpoint a Ul’janovka, nel distretto di Krasnoarmejsk, causando tre morti e tre feriti sul versante ucraino, senza perdite da parte nostra”. Ma allora, si chiedeva la poliedrica creatrice tedesca, “Il museo è un garage? Un arsenale? Il piedistallo di un monumento è una base militare?”.
Sono passati cinque anni dalla provocatoria e sconsolata domanda. Non è chiaro che fine abbia fatto il cingolato ma è certo che finora le cannonate nel Donbass non erano arrivate alle nostre orecchie. Lì si combatteva e si moriva, ma, lo sanno tutti, la disgregazione dell’impero sovietico ha avuto come corollario una travagliata nascita di nazioni ai suoi confini. Perché preoccuparsi più di tanto? I secessionisti, ora riconosciuti da Putin, erano più noti agli ultrà del calcio per incredibili gemellaggi piuttosto che alla normale opinione pubblica. Adesso però a tuonare non sono i reperti bellici e la paura cresce. Come faremo se Putin chiude il gasdotto? E le badanti continueranno a venire da noi?
La pace perpetua teorizzata da Kant resta “un’iscrizione satirica posta sull’ insegna di un oste olandese, nella quale era dipinto un cimitero”. E il museo della guerra si arricchisce sempre di nuovi orrori.
Marco Cianca