Ci mancavano solo i referendum. Sulla testa di una situazione politica così caotica, conflittuale e in un certo senso indecifrabile, piombano consultazioni popolari di cui gli italiani non sentivano affatto il bisogno. Cinque i quesiti ammessi al voto dei cittadini, tutti che riguardano la giustizia. Mentre i due che concernevano i diritti civili, o meglio le libertà individuale, sono stati bocciati dalla Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato: quelli sull’eutanasia e sulla legalizzazione della cannabis.
In primavera, tra aprile e giugno saremo così chiamati a votare se è meglio cancellare o mantenere la decadenza e la incandidabilità per i parlamentari e gli amministratori condannati; se va abolito uno dei presupposti per la carcerazione preventiva; se vanno separate le funzioni tra giudici e pubblici ministeri; se i criteri per l’elezione dei membri del Csm vanno cambiati oppure no. Insomma questioni piuttosto tecniche, che però sono diventate squisitamente politiche visto il caos che da anni regna nel mondo giudiziario italiano, le cui conseguenze le pagano i cittadini: giustizia più che lenta, errori giudiziari a ripetizione, impossibilità a evadere le pratiche in tempi ragionevoli, grazie anche (ma non solo) agli organici ridotti di magistrati e cancellieri, pratiche che poi impattano violentemente sulla vita delle persone. Costrette ad aspettare i tempi biblici del giudizio, magari in carcere.
E’ evidente che si tratta di problemi che molti italiani vivono sulla loro pelle e che hanno provocato un moto di ribellione nei confronti del potere giudiziario, seppellito anche dagli scandali che lo hanno colpito: la lotta per il potere nel Csm, le correnti che si combattono a colpi di dossier, la lottizzazione sempre più profonda, le commistioni con i partiti di riferimento… Insomma la magistratura al momento non gode di buona fama, tutt’altro, non a caso lo stesso Sergio Mattarella ne ha parlato a lungo nel suo discorso di accettazione del secondo mandato. Invocando una riforma strutturale e ricevendo ovazioni dal Parlamento, il quale Parlamento si è poi ben guardato dall’intervenire tempestivamente sulla materia. Dunque un bel voto popolare che faccia “giustizia” sarebbe benvenuto. Così come sarebbe stato salutare il voto popolare sul suicidio assistito e sulle droghe leggere, visto che i nostri rappresentanti non sono stati capaci di approvare leggi che dessero risposte a queste questioni.
Ecco, proprio questo è il punto. E’ giusto che, in assenza dell’intervento degli eletti dal popolo la parola passi direttamente al popolo? Saltando di colpo quel potere legislativo previsto dalla nostra Costituzione che lo attribuisce appunto al Parlamento che viene eletto dal popolo? Certo, bisognerebbe evitare scorciatoie di questo genere. Certo, bisognerebbe che il Parlamento funzionasse come dovrebbe. Certo, non dovrebbe essere prassi che siccome i partiti non riescono a mettersi d’accordo, allora la parola passa al popolo, instaurando una democrazia diretta de facto. Bisognerebbe, si dovrebbe, sarebbe… Ma non è. E allora, viva i referendum, e buonanotte alla democrazia rappresentativa? E il passo successivo quale sarebbe, un Presidente eletto direttamente dal popolo, con i pieni poteri come chiedeva Matteo Salvini nel 2019?
Qui siamo per fortuna nel regno della fantapolitica, visto che per arrivare a una soluzione del genere bisognerebbe modificare profondamente la Costituzione. E visti i rapporti tra le attuali forze politiche, si può tranquillamente escludere che ciò avvenga. Inoltre, come è noto perché un referendum sia valido, deve votare il 50,1 per cento degli aventi diritto: cosa che non avverrà, come non è avvenuta in moltissime consultazioni del passato. Tanto più che oggi la disaffezione dalla politica è altissima, basta ripensare alle scorse elezioni amministrative quando ha votato appena la metà degli elettori.
E allora, allora a che servono questi referendum? Servono a fare pressione sul Parlamento e soprattutto a misurare i rapporti di forza tra i partiti. I quali potranno valutare la loro consistenza in base alle indicazioni di voto che daranno: il leader della Lega, per esempio, potrà cantare vittoria se i Sì all’abrogazione delle norme sulla giustizia saranno più dei no, a prescindere dal raggiungimento del quorum. Viceversa, il Presidente dei Cinquestelle, Giuseppe Conte, mentre finora non è pervenuto il parere del segretario Pd Enrico Letta. Insomma, in primavera parteciperemo a un sondaggio di massa, che non avrà alcun effetto pratico anche perché la legislatura è ormai entrata nell’ultimo miglio, ma provocherà diversi scossoni nel quadro politico. E proprio mentre siamo ancora alle prese con la pandemia, indebolita ma non scomparsa, e con la messa in opera di tutti quei lavori pubblici e quelle riforme strutturali che altrimenti addio ai finanziamenti europei, con un governo e una maggioranza che stanno in piedi per miracolo e che usciranno ancora più frammentati di oggi.
Avrà però un effetto a medio termine, perché il risultato di questi referendum sarà oggetto della prossima campagna elettorale (peraltro, già ampiamente in corso), e pervaderà di sé tutte le mosse, i programmi e le alleanze dei partiti. I quali saranno meno liberi di presentarsi agli elettori con la loro identità, ma dovranno tenere conto di quel voto: inutile ma pesantissimo.
Morale della favola: come svilire per l’ennesima volta un istituto di democrazia diretta, che andrebbe usato con estrema parsimonia, cioè con criterio e non come una clava da agitare sulla testa del Parlamento. Che, certo, non ha fatto molto per evitare questo brutale trattamento ma che resta, dovrebbe restare, la sede fondamentale della nostra vita pubblica. Altrimenti, sarà ipocrita lamentarsi e gridare al soccorso quando l’astensionismo raggiungerà una cifra megagalattica.
Riccardo Barenghi