Nel XXIII Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione Del CNEL, Alessandro Rosina docente di Demografia alla Università cattolica affronta uno degli aspetti cruciali del dibattito nel capitolo dedicato al “Lavoro delle nuove generazioni”. Per sintetizzare il problema Rosina lo definisce “il paradosso dei pochi ma troppi”; e magari – per meglio chiarire il paradosso lo colloca tra due considerazioni parallele ed estreme. “Il maggior rischio che sta correndo oggi l’Italia è quello di trovarsi nei prossimi anni e decenni senza le risorse più preziose, costituite da giovani ben preparati con le competenze necessarie per alimentare i processi di sviluppo competitivo del paese. Eppure – prosegue – c’è chi obietta che in realtà, per quanto pochi, i membri delle nuove generazioni italiane siano in realtà troppi (un’idea sintetizzata dalla frase: “se ce ne fossero ancora di meno avremmo meno giovani disoccupati”). Ad avviso di chi scrive, l’obiezione non ha un minimo di carattere scientifico; anzi, in questi termini – credo – si parla solo intorno ai tavoli di biliardo dei Bar Sport della provincia italiana. In realtà il paradosso di Rosina potrebbe essere tradotto in termini pratici così: le aziende cercano giovani adatti alle loro esigenze produttive, ma non li trovano; i giovani, dal canto loro, cercano un’occupazione ma stentano a trovarla e quando vi riescono molto spesso non corrisponde alle loro aspettative e al loro livello di formazione scolastica. E’ troppo facile, che spesso tendono a fare i sindacati, calciare la palla nella tribuna dei datori di lavoro e chiedere ai governi di cancellare quelle forme contrattuali entrate a far parte del mercato del lavoro, in nome della flessibilità, come se bastasse gettare il termometro per scacciare la febbre. Ci sono troppi elementi che non stanno insieme nel puzzle del mercato del lavoro per trovare il filo conduttore di un superamento del paradosso. Usciamo da un regime di blocco dei licenziamenti durato – sia pure con qualche variazione – 500 giorni. L’esperienza ha evidenziato che la principale conseguenza è stato il blocco delle assunzioni e che nel complesso sono venuti meno un milione di posti di lavoro, soprattutto con rapporti a termine o flessibili. I dati forniti dall’Istat fino a novembre 2021 rappresentano uno scenario diverso da quello che si era temuto. Prosegue, infatti, la crescita dell’occupazione osservata nei due mesi precedenti, facendo registrare in tre mesi un aumento di quasi 200 mila occupati; rispetto a gennaio 2021, l’incremento è di 700 mila occupati e riguarda sia il lavoro dipendente sia quello autonomo. Il tasso di occupazione è più elevato di 2,1 punti percentuali. Rispetto ai livelli pre-pandemia (febbraio 2020), il numero di occupati è ancora inferiore di 115 mila unità, ma il tasso di occupazione, pari al 58,9%, è superiore di 0,2 punti, quello di disoccupazione è sceso dal 9,7% al 9,2% e il tasso di inattività, al 35,0%, è ancora superiore di 0,2 punti. A novembre, la crescita congiunturale degli occupati è il risultato dell’aumento dei dipendenti a termine e autonomi (rispettivamente +0,6% e +1,3%) e della diminuzione dei dipendenti permanenti (-0,1%). Nell’arco dei dodici mesi l’occupazione risulta in crescita grazie all’aumento dei dipendenti permanenti (+0,3%) e soprattutto di quelli a termine (+17,0%); più contenuto l’aumento degli autonomi (+0,1% pari a +4mila). Si temevano milioni di licenziamenti, sono in corso invece centinaia di migliaia di dimissioni. Citiamo dati del ministero del Lavoro: “La crescita dei rapporti cessati riguarda tutte le cause di cessazione: tra queste l’aumento maggiormente significativo – scrive il Lavoro – è costituito dalle Dimissioni (pari a 85,2%) mentre una crescita più contenuta si registra nei Pensionamenti (+2,0%) nelle Altre cause (+12%) e nei licenziamenti (+17,7%, pari a +17 mila)”. Ma la statistica che in modo più evidente mette in evidenza il paradosso è quella dei posti vacanti, la quale conferma – almeno in linea di tendenza – quanto certifica mensilmente le rilevazione Excelsior rispetto alla difficoltà di effettuare quelle assunzioni di cui le aziende avrebbero necessità. Ricordiamo l’Istat si avvale di questa definizione per indicare i posti di lavoro retribuiti (nuovi o già esistenti, purché liberi o in procinto di liberarsi) per i quali il datore di lavoro cerca attivamente al di fuori dell’impresa un candidato adatto ed è disposto a fare sforzi supplementari per trovarlo. Il tasso di posti vacanti è il rapporto percentuale fra il numero di posti vacanti e la somma di questi ultimi con le posizioni lavorative occupate. Tale indicatore può fornire informazioni utili per interpretare l’andamento congiunturale del mercato del lavoro, dando segnali anticipatori sul numero di posizioni lavorative occupate. Nel terzo trimestre 2021, il tasso di posti vacanti destagionalizzato – per il totale delle imprese con dipendenti – si è attestato all’ 1,8%; lo stesso valore si è registrato per le imprese dei servizi ed è salito all’ 1,9% per quelle dell’industria. Il confronto con il trimestre precedente segnala un incremento nell’industria (+0,3 punti percentuali) e un decremento nei servizi (-0,2 punti percentuali). Per le imprese con almeno 10 dipendenti, il tasso di posti vacanti è pari all’1,4%, frutto di un incremento simile nei comparti dell’industria e dei servizi (+0,1 punti percentuali). D’accordo, si potrebbe replicare: ma i disoccupati a novembre erano in cifra assoluta 2.338.000: di cui 410 mila tra i 15 e i 24 anni e 647mila tra 25 e 34 anni.
Tornando al saggio di Rosina, come spiega il demografo della nuova generazione, il “paradosso”? Ci sono – a suo parere – almeno quattro fattori che in combinazione tra di loro hanno portato i giovani entrati nel mercato del lavoro in questo secolo ad apparire maggiori rispetto alla capacità del sistema produttivo di includerli efficacemente e valorizzarli adeguatamente. Il primo è demografico, ma letto nel rapporto tra generazioni. Finora al centro della vita attiva del paese ci sono state le coorti consistenti nate fino a metà anni Settanta. In particolare i nati attorno a metà anni Sessanta (all’apice del baby boom nascevano oltre un milione di bambini) avevano 35 anni nel 2000, 45 nel 2010 e 55 nel 2020. Sono inoltre entrati nel mercato del lavoro alla fine del secolo scorso, in condizioni ancora di garanzia e stabilità (che via via, come ben noto, andranno a ridursi per quelle successive). Il secondo è il percorso di basso sviluppo del Paese. La prima decade del secolo è stata indicata come “decennio perduto” per il rallentamento della crescita del prodotto interno lordo rispetto ai decenni passati e la perdita di competitività rispetto alle altre economie avanzate1 . Il periodo 2008-13 è stato poi segnato dalla Grande recessione che ha colpito in modo particolare l’Italia e ancor più i giovani. Un terzo fattore può essere ricondotto alla fase di sensibile aumento dell’occupazione nella fascia più anziana della forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione porta i governi delle economie mature avanzate a porsi la questione di come affrontare i costi crescenti associati alle pensioni, alla salute e all’assistenza sociale. Uno dei modi principali per farlo è incoraggiare le coorti più mature (over 55) a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro. In Italia ciò è stato fatto spostando per legge in avanti l’età di pensionamento. Ciò è avvenuto, però, con basso sviluppo degli strumenti di Age management, ovvero delle politiche a supporto della lunga vita attiva nelle aziende e organizzazioni. La combinazione tra invecchiamento demografico, posticipazione del ritiro dal lavoro, bassa crescita economica e basso sviluppo dei settori più innovativi e competitivi, ha portato ad un aumento dell’occupazione degli over 55 senza espansione generale delle opportunità di occupazione. Ovvero la torta non si è allargata e le porzioni sono andate sempre più a favore della fascia più matura della forza lavoro. Di fatto la politica si è accontenta di ridurre i costi dell’invecchiamento senza favorire un salto di qualità delle condizioni di lunga vita attiva nel mondo del lavoro, da un lato, e senza affrontare le conseguenze del “degiovanimento”, dall’altro4 . Affrontare i costi dell’invecchiamento della popolazione senza cogliere la sfida del degiovanimento non porta lontano: il percorso dell’Italia nel primo tratto di questo secolo lo dimostra. Il tasso di occupazione nella classe di età 15-24 è passato dal 25,7% al 18,5% nel periodo che va dal 2005 al 2019 (16,8% nel 2020), con un divario rispetto alla media Ue-27 raddoppiato (da 7,4% nel 2005 a 14,7% nel 2020). Analoga dinamica per le fasce giovani-adulte. In particolare nella classe 30-34 nello stesso periodo l’occupazione è scesa da 74,5% a 68,5% (66,9% nel 2020), con divario quasi quadruplicato rispetto alla media europea (da 3,3% a 12,2%). Viceversa nella fascia 55-64 il divario si è ridotto, da 8,6% nel 2005 a 5,4% nel 2020 (con tasso di occupazione salito da 31,4% a 54,2%, e rimasto sostanzialmente invariato nel 2020 rispetto al 2019). Insomma, in Italia i giovani si sono ridotti di più rispetto al resto d’Europa ma anche il tasso di occupazione giovanile si è ridotto maggiormente. La popolazione in età matura è cresciuta di più rispetto al resto dell’Unione, ma anche il tasso di occupazione degli over 55 ha mostrato un incremento maggiore. Il nostro paese ha quindi, rispetto alle altre economie avanzate, sia accentuato gli squilibri demografici a sfavore delle nuove generazioni, sia aggravato tale sbilanciamento riducendo in modo più che proporzionale la presenza dei giovani nel mondo del lavoro. Va precisato che l’aumento dell’occupazione in età matura non va, in generale, a scapito dell’occupazione giovanile5 . Ciò però può avvenire in alcune circostanze e in particolare in contesti di bassa crescita economica e in settori poco dinamici e competitivi6 . L’Italia è più vicina a questa seconda situazione, mentre le Germania ha visto crescere nello stesso periodo l’occupazione sia giovanile che matura, attraendo inoltre giovani qualificati da altri paesi. Quest’ultima paese ha, quindi, risposto all’invecchiamento della popolazione contrastando il processo di degiovanimento assieme al rafforzamento delle opportunità di una lunga vita attiva. Il quarto fattore che, in combinazione con i precedenti, ha contribuito al surplus di giovani italiani rispetto alla capacità di inclusione di nuove energie ed intelligenze con ruolo attivo nei processi di sviluppo del Paese, sono state tutte le carenze e inefficienze nei servizi che si occupano dell’incontro tra domanda e offerta. Un persistente basso investimento in politiche attive ha determinato un deficit di strumenti adeguati – all’altezza delle economie più avanzate e alle sfide che pone questo secolo – per orientare e supportare le nuove generazioni: nella formazione delle competenze richieste; nella ricerca di lavoro; nella realizzazione armonizzata dei progetti professionali e di vita. In un mondo sempre più complesso e in rapido mutamento, con un mercato sempre più dinamico, i giovani italiani si sono trovati abbandonati a se stessi e all’aiuto delle famiglie, con alto rischio di perdersi nel percorso di transizione scuola-lavoro. La conseguenza è un grande spreco di potenzialità, una dissipazione del capitale umano, un’allocazione non ottimale delle risorse nel mercato del lavoro, oltre che un aumento di diseguaglianze sociali intragenerazionali. I giovani con titolo di studio più basso più facilmente che negli altri paesi si sono trovati intrappolati nella condizione di NEET (il più significativo e drammatico spreco di risorse, ndr), mentre quelli con più alta formazione e competenze si sono trovati ad entrare tardi e male nel mondo del lavoro, come testimoniano i dati dell’over-education e il mismatch tra domanda e offerta di competenze. Tutti questi quattro fattori – conclude Alessandro Rosina – stanno alle fondamenta di una triste verità che riguarda il nostro paese: quella di aver trasformato le nuove generazioni in uno “svantaggio competitivo” nello sviluppo dell’Italia all’interno del quadro internazionale. I giovani italiani sono di meno, mediamente meno formati a livello avanzato, meno valorizzati quando inseriti nel sistema produttivo, più passivamente a carico dei genitori o del welfare pubblico. Rispetto ai paesi con cui ci confrontiamo, da un lato sono meno efficacemente messi nella condizione di creare valore nel mondo del lavoro, d’altro lato sono lasciati più facilmente diventare un peso in termini di costi sociali.
In una situazione come quella che viene descritta nel Rapporto, dai sindacati giunge un risposta che a noi pare – absit iniuria verbis – quanto meno “facilona”: garantire ai nostri giovani che, nonostante tutto, quando andranno in pensione troveranno quella “garanzia” che hanno rincorso, inutilmente, per tutta la vita.
Giuliano Cazzola