“Rovesciamento del basso regime parlamentaristico per darlo in mano alla nuova Italia”. Il 29 settembre del 1922, Benito Mussolini, annunciando davanti alla direzione del partito fascista la marcia su Roma, dava voce a quel rifiuto del cameralismo che cento anni dopo soffia di nuovo come un vento malefico. I primi mesi del 2022 saranno decisivi per capire se la riconciliazione tra il Palazzo, come lo chiamava Pasolini, e il comune sentire è ancora possibile o se la divaricazione diventerà un fossato colmabile solo con nuovi assetti istituzionali.
Secondo uno schema ormai consueto, si dice che la prima Repubblica va dal referendum del 1946 a Tangentopoli, la seconda dalla distruzione per via giudiziaria dei grandi partiti a oggi, la terza sta nel grembo degli dèi. L’elezione del successore di Mattarella costituisce uno spartiacque e lo spettacolo che sta andando in scena fa temere un finale da torte in faccia. Draghi o non Draghi? Qui sta il dilemma. Farebbe meglio vigilando dall’altro del Colle o deve rimanere alla guida del governo? Il rischio è che alla fine non stia da nessuna parte. Deluso e ingannato potrebbe anche sbattere la porta. Con la competenza, le esperienze e le doti che vanta, prestigiosi incarichi internazionali non gli mancherebbero certo.
Potrebbe venir giù tutto. Il presidente del consiglio si è messo in gioco ma le trame dei grandi, o meglio piccini, elettori lo stanno cuocendo sulla graticola. Se lui auspica un voto concorde dell’attuale maggioranza, subito Renzi (chi rappresenta?) replica perfido che un’altra è possibile. Berlusconi tesse la tela, la Casellati agogna, Amato non disdegna, la Cartabia aleggia nell’aria, Casini, sornione dietro le quinte, potrebbe conquistare il palcoscenico tra ipocriti applausi.
Siamo di nuovo al “basso regime parlamentaristico” contro il quale il Duce scatenò i suoi manganellatori? Di certo, Camera e Senato rappresentano il discredito elevato a sistema. Si sono delegittimati da soli, hanno fatto tutto in casa. Per sopravvivere si sono perfino fatti belli approvando la propria riduzione. Ma il numero, si badi bene, è rimasto quello di prima. Saranno loro, pur sconfessati da se stessi, a scegliere la più alta carica dello Stato.
Anche le proporzioni risultano sfalsate rispetto alla realtà. I Cinquestelle sono ancora il gruppo più cospicuo anche se i sondaggi li danno quantomeno per dimezzati mentre la Lega e Fratelli d’Italia sono con ogni evidenza sottorappresentati. Il PD, che allo stato dell’arte sembra riscuotere il maggior numero di consensi, resta infarcito di renziani. I quali, nel segreto dell’urna potrebbero non seguire le indicazioni di Enrico Letta, magari per farlo saltare. Italia Viva conta ben oltre il suo peso effettivo. Poi c’è quel centinaio di senza bandiere pronti a passare, come tutti i mercenari che si rispettino, da un signorotto all’altro.
Parafrasando Manzoni, la dignità, uno, se non ce l’ha, mica se la può dare. Questo è il circo Barnum che dovrebbe designare il capo dello Stato. Partiti vogliosi di rivincita in un passaggio dagli infiniti risvolti, ammonisce Paolo Mieli.
Di converso, la scelta di Draghi porta con sé una serie di controindicazioni. Quello che è attualmente il più prezioso gioiello di famiglia verrebbe messo in sicurezza, e questo è necessario, anzi indispensabile. Nello stesso tempo, però, si alimenterebbe ancor di più la tendenza al culto della personalità, all’uomo della provvidenza, alla scelta di un individuo, non di un progetto. Il suo, per dirla con Carlo Verdelli, è un governo “ad affidamento personale” e tale sarebbe anche il senso di un trasloco in quella che fu la dimora prima dei papi e poi dei re.
Gustavo Zagrebelsky dipinge il presidenzialismo “di fatto” come un mostro da evitare. Eppure, nel Paese, l’elezione diretta di un monarca repubblicano gode di ampi consensi. Draghi sarebbe quantomeno in sintonia con questo comune sentire. E non è detto, con buona pace dell’insigne costituzionalista, che questo sia un male. Anzi. Potrebbe favorire quella ricostruzione democratica, appena agli inizi, auspicata da Mattarella quando affidò l’incarico, “senza alcuna formula politica”, all’ex responsabile della Bce.
Nessuno è in grado di prevedere come andrà a finire. Tutti parlano ma, come affermerebbe con sprezzo Robert De Niro nei panni di Al Capone, sono solo chiacchiere e distintivo.
La pandemia non si cura delle scadenze istituzionali e la variante Omicron impazza allungando a dismisura la situazione di emergenza. Sono due anni che siamo costretti a vivere in libertà vigilata, lo facciamo convinti, ci vacciniamo, in primavera servirà una quarta dose, sappiamo che non ci sono altre possibilità, ma vorremmo avere piena fiducia in chi prende tali decisioni.
Finora Mattarella è stato il garante e il punto di rifermento anche per i “sì vax”. Un faro sicuro nella nebbia dei dubbi e delle paure. Chiunque prenda il suo posto deve averlo ben chiaro.
Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, scrive, proprio qui sul Diario del Lavoro, Riccardo Barenghi, citando Bertolt Brecht. Ha ragione da vendere. Ma, come rimarca con brillante e amara ironia lui stesso, non siamo un Paese normale. Tanto che un italiano su due, quando c’è la chiamata ai seggi, preferisce restare in casa.
Weimar crollò mentre il Reichstag discuteva di pomodori, formaggi e cavoli.
Marco Cianca