Serve la ricerca ‘nel’ sindacato e a ‘cosa’ serve esattamente? Questo interrogativo richiama un tema trascurato, ma riportato all’attenzione in un loro documento dagli Ires (istituti di ricerca economica e sociale) della Cgil, di Veneto, Toscana ed Emilia: presentato in vista della Conferenza d’organizzazione di quella Confederazione.
Nei momenti più alti della sua storia il rapporto tra sindacato e ricerca, tanto ‘interna’ che ‘esterna’, ha costituito un tratto spesso caratterizzante e vitale.
All’epoca della loro nascita Cisl e Uil hanno investito giustamente nella costruzione di una loro identità e cultura. Di questo disegno fondativo esistono ancora tracce visibili e persistenti in entrambe le organizzazioni; di cui la più tangibile resta il Centro Studi Cisl di Firenze, che ha da poco compiuto i 70 anni di vita.
Anche la Cgil, che era già originariamente dotata di identità ed insediamento forti, ha investito in questa direzione in tutte la fasi di passaggio che ne richiedevano il riposizionamento: dopo la sconfitta alla Fiat nel 1955, dopo la svolta dell’Eur del 1978, dopo il venir meno delle certezze derivanti dal mondo comunista (1990). Questo ha consentito di far crescere in progress strumenti, sedi, intellettuali orientati a contaminare sindacato ed elaborazioni culturali, producendo diverse versioni del processo di integrazione necessario a rivitalizzare in modo costante le strategie sindacali.
Una vicenda questa – del complessivo mondo sindacale – segnata dunque da passaggi importanti, ma anche da arretramenti e passi del gambero.
Per sintetizzare questo diagramma possiamo utilizzare tre concetti utili per misurare le evoluzioni intervenute nel corso del tempo.
Il primo è quello di dipendenza, che allude ad una modalità organizzativa nella quale la ricerca è al servizio dell’organizzazione, una modalità incarnata in passato dagli Uffici Studi di cui le Confederazioni o le altre strutture si dotavano per arricchire di dati ed elaborazioni le loro scelte squisitamente politiche.
Il secondo è quello di interdipendenza, che invece richiama una relazione matura e paritaria tra gli organi deputati alla ricerca e quelli politici della line sindacale. Questa appare anche come la torsione più fruttuosa e in grado di sollecitare sia le elaborazioni scientifiche che il processo di decisione (all’interno del quale a questo punto le prime occupano uno spazio significativo).
Infine il terzo è quello di disallineamento. Che sta ad indicare un legame divenuto affievolito, sulla scorta del ‘legame lasco’ spesso adottato per spiegare alcuni comportamenti organizzativi. Dunque una difficoltà a trovare una sintesi tra i due poli, che in questo caso tendono ad interagire limitatamente. Ognuno di essi può essere vitale (come in certa misura avviene), ma quello che appare carente è un reale interscambio reciprocamente vantaggioso.
Questo terzo scenario, più prossimo all’evoluzione recente, indica l’esistenza di un problema con cui misurarsi.
Infatti se gettiamo uno sguardo verso l’attuale mondo sindacale possiamo osservare che, in rapporto con il passato, la ricerca ‘dentro’ il sindacato appare essersi ridotta, se si pensa almeno alle dimensioni quantitative e se si osserva la dinamica nel corso del tempo del numero delle strutture dedicate, oltre che la loro rilevanza.
L’interrogativo che dobbiamo porci al riguardo è se ci troviamo di fronte ad un restringimento occasionale e superabile o ad una frattura più profonda. Insomma ci domandiamo se tale disallineamento, che si è delineato, possa diventare una separazione, più o meno consensuale, o se invece si possa immaginare una riconciliazione più o meno solida e fruttuosa.
Ci sono tanti studi ed indagini interessanti, come quelle condotte dentro il sindacato dopo la pandemia sullo smart working. Indagini che indicano una significativa vitalità, e che trovano in Cgil il loro cuore attuale nella Fondazione Di Vittorio, oltre che nella rete degli Ires: corrispondente ad un modello giusto di articolazione territoriale di questa attività, che nel corso degli anni si è andato però restringendo. E le stesse strutture sindacali – nonostante non godano di adeguata attenzione in questo sforzo – mostrano una vitalità sorprendente nel promuovere azioni plurali per rilanciare il contatto e la membership sindacale, lungo una scala ampia di modalità che mirano a ‘rivitalizzare’ le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori (come l’indagine BreackBack promossa dalla Cisl e di cui abbiamo già parlato su queste colonne).
Qualcuno dirà che esiste una minore attenzione scientifica verso il sindacato rispetto agli anni d’oro. Probabilmente questa affermazione contiene del vero, ma in realtà rispetto al passato troviamo un fiorire di studi, prodotti da diverse angolature disciplinari, che riguardano un numero crescente di temi che impattano largamente sul sindacato: il lavoro e le sue trasformazioni sociali, le dinamiche del mercato del lavoro nei suoi tanti profili, i diritti e le tutele nel lavoro post-fordista fino alla Gig economy, l’economia verde e sostenibile, le politiche sociali e per l’occupazione, per citarne solo alcuni.
Ma perché allora parlare in questo momento del rafforzamento dell’esigenza di quella che abbiamo chiamato prima ‘riconciliazione’ tra sindacato e ricerca?
La ricerca serve al sindacato per trovare costantemente nuove bussole e arricchire cambiandole le proprie strategie. Quindi essa è sempre importante, ma è decisiva nelle fasi di passaggio, come quella attuale.
In questo ragionamento sembra utile attirare l’attenzione su due aspetti che meritano particolare considerazione.
Il primo riguarda l’esaurimento progressivo dell’autosufficienza delle culture sindacali nella comprensione e nel governo del mondo del mondo del lavoro. Non è casuale che la consapevolezza più alta di questa tendenza e della necessità di innestare nella cultura sindacale i più alti prodotti della conoscenza scientifica l’abbia avuta Bruno Trentin: probabilmente il sindacalista cui dobbiamo il principale lascito di elaborazioni e proposte, provenienti ‘dall’interno’ del sindacato. Una riflessione la sua che si è tradotta, come è noto, nella definizione del “sindacato dei diritti”, uno degli approdi più importanti – ed anche controversi – nella ricerca di chiavi identitarie e strategiche post-classiste (le quali ultime erano appunto quelle interne e in certa misura logorate). Quindi il ricorso alle competenze e ricerche “esterne”, magari con ponti ‘interni’, sembra da considerare ineludibile per tutti i sindacati.
Il secondo aspetto riguarda appunto la questione che abbiamo già introdotto: a ‘cosa’ serve una maggiore integrazione tra sindacato e ricerca. La mia opinione – è bene qui sottolineare un profilo soggettivo – si sostanzia nell’idea che solo in questo modo possa essere supportato e costruito un cambiamento, più o meno ampio, nell’agenda sindacale.
Questa agenda risulta ancora largamente condizionata dalle eredità ed immagini del passato. Di qui ad esempio la fatica del sindacato ad operare come soggetto centrale – si sarebbe detto come ‘soggetto politico’ – nell’ambito della definizione e realizzazione del Next Generation Eu: il più grande piano di investimenti pubblici degli ultimi settanta anni.
Insomma servirebbe un Progetto per il futuro, equivalente – per limitarci alla Cgil – alla funzione assolta all’epoca dal Piano del lavoro promosso da Di Vittorio. O se vogliamo attualizzare questo riferimento, servirebbe un equivalente – e questo riguarda tutti i sindacati – del grande Piano sociale ed economico promosso negli Usa dalla Presidenza Biden.
In passato questa collaborazione, tra ricerca e sindacato, ha prodotto momenti alti di cui si sono giovate tutte le organizzazioni. Possiamo citare per la Cisl la progressiva definizione della contrattazione aziendale come leva per la modernizzazione delle nostre relazioni industriali. Per la Uil la suggestione, lanciata negli anni ottanta, del ‘Sindacato dei cittadini’. Per la stessa Cgil la proposta, avanzata dalla neonata Ires nel 1979, di un ‘Piano d’impresa’, che lanciava una versione innovativa ed istituzionalizzata della partecipazione dei lavoratori. O anche la capacità, manifestata da quello stesso Istituto in anni più recenti, di richiamare l’attenzione, attraverso il ‘Rapporto sui salari’, sulla crescita del fenomeno dei bassi salari e delle disuguaglianze retributive. Ed altri esempi potrebbero essere segnalati.
L’attuale agenda sindacale appare ancora troppo condizionata dalla società del lavoro del passato. Lo testimonia a titolo di esempio l’estrema sensibilità verso il tema dell’età pensionabile: una issue – come attesta anche il fallimento di quota 100 voluta dalla Lega – che interessa solo una ridotta parte degli attuali lavoratori.
Questo atteggiamento sindacale è comprensibile. Esso non è riconducibile ad una vocazione sostanziale conservatrice: nella composizione del lavoro contemporaneo, divenuta più stratificata ed eterogenea, crescono differenze e individualismi che non è facile ricondurre ad un baricentro comune e a rivendicazioni condivise. Ma appunto questo è il ruolo che si dovrebbe attribuire ad una nuova stagione della ricerca sindacale: quello di aiutare ad identificare le chiavi identitarie e pratiche intorno alle quali il sindacato può rielaborare ed arricchire il suo ruolo di rappresentanza ‘generale’ dell’universo dei lavori, complesso ed in costante mutamento. I sindacati italiani vantano un’accumulazione più forte rispetto a larga parte degli altri movimenti sindacali. Sono forti e non partono da zero: per questo un innesto ed un allargamento risultano plausibili e perseguibili con successo.
Questa possibile ‘rivitalizzazione’ e questa istanza di ‘rilancio’ dunque si presentano come la risposta principale all’esigenza di superare il ‘disallineamento’: tocca alle organizzazioni mostrare che il matrimonio tra sindacato e ricerca può essere ritrovato e ripensato con lo scopo di accompagnare i cambiamenti sindacali prossimi venturi.
Mimmo Carrieri