Il popolo italiano, o almeno una parte di esso, ha sempre nutrito un debole per l’uomo forte, quello che decide senza farsi condizionare dalle varie consorterie che animano la nostra vita politica e sociale. “Quando c’era lui, i treni arrivavano in orario”, è una delle tipiche frasi fatte che hanno caratterizzato la nostalgia per il capo del fascismo, nel senso di colui che sapeva governare con pugno di ferro un Paese restio alla disciplina. Frase spesso accompagnata dal “si stava meglio quando si stava peggio”, che denotava fastidio nei confronti della democrazia appena rinata. Chi sapeva imporsi ha sempre esercitato un certo fascino tra gli italiani, pronti in teoria a farsi dirigere, anzi a comandare da qualcuno che sembrava capace di prendere decisioni rapide ed efficaci, e chissenefrega delle regole basilari della democrazia parlamentare voluta dalla nostra Costituzione.
In teoria però, perché invece nella pratica ogni qual volta spuntava qualcuno che il potere di decidere lo rivendicava per sé stesso, al di fuori o contro tutti gli altri, beh allora il discorso cambiava: e quel qualcuno veniva costretto a fare marcia indietro. A mediare, a scendere a compromessi, a fare insomma i conti con i poteri che caratterizzano la nostra Repubblica, e alla fine a rinunciare al suo disegno politico-istituzionale. Basti pensare a Bettino Craxi e alla sua Grande riforma, oppure a Francesco Cossiga e alle sue picconate contro il Sistema, a Silvio Berlusconi e alle sue mire presidenzialiste, fino a Matteo Renzi e alla sua riforma costituzionale che a parole tutti dicevano fosse la cosa giusta da fare per poi affossarla nel segreto dell’urna nel dicembre 2016, costringendo l’allora premier a dimettersi.
Ma almeno coloro che hanno provato a cambiare l’assetto istituzionale del nostro Paese, lo hanno fatto rispettando i principi fondamentali della Costituzione: passando cioè attraverso proposte di legge da approvare in Parlamento con maggioranze qualificate. Qualcuna di queste proposte è anche passata, sia nel voto delle Camere sia nel referendum costituzionale (il titolo Quinto per esempio, che attribuisce più poteri alle Regioni rispetto allo Stato centrale), ma non si è mai arrivati a quella decisiva. Ovvero all’introduzione in Italia del presidenzialismo, il Capo dello Stato eletto dal popolo, che quindi sarebbe sostanzialmente anche il capo del governo, o il semi-presidenzialismo, che rafforzerebbe i poteri del premier togliendoli al Parlamento. Una riforma, questa, che sarebbe una vera e propria rivoluzione di sistema e che forse proprio per questo nessuno ha mai avuto la forza di proporla fino in fondo.
Stupisce quindi, e sconcerta pure, l’idea che circola sottovoce nel Palazzo da qualche settimana e che il Ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha avuto la temerarietà di declamarla a gran voce. Secondo lui, se si eleggesse Mario Draghi al Colle, l’attuale premier potrebbe continuare a guidare il governo anche dal Quirinale. Magari mettendo a palazzo Chigi una sua controfigura che non conterebbe nulla. Giorgetti l’ha anche sintetizzata così: “Un semipresidenzialismo de facto”. L’uso del latinorum non attenua di una virgola la potenzialità deflagrante di una proposta del genere. Che significherebbe saltare in un colpo solo tutta la nostra architettura istituzionale, dal Parlamento ai partiti, dai corpi intermedi fino alla società civile. Draghi verrebbe investito di un ruolo non previsto dalla nostra Costituzione, sarebbe uno e bino, avrebbe insomma i piani poteri che Matteo Salvini voleva per sé stesso nell’estate del 2019.
Ora, per quando l’attuale premier sia competente, per quanto stia lavorando bene sul piano vaccinale e sulla ripresa economica, per quanto sia apprezzato e autorevole anche all’estero, non appare verosimile che la nostra democrazia possa accettare di abdicare in suo nome o di chiunque altro. Negli ultimi trent’anni, ogni volta che a palazzo Chigi arrivava un tecnico, da Ciampi a Monti fino a Draghi, si sono spesi fiumi di inchiostro e di parole per spiegare che queste scelte dimostravano la crisi dei partiti, della loro rappresentatività, del Parlamento, insomma della democrazia. Cosa bisognerebbe dire se un domani quello stesso tecnico da palazzo Chigi si trasferisse al Quirinale mantenendo però anche i poteri di capo del governo? E senza neanche un voto del Parlamento o del popolo? Si parlerebbe di un golpe bianco, e non a torto.
Ma oggi che per fortuna la questione è puramente teorica, si può dire che solo averla sollevata dimostra quanto sia fragile il nostro attuale sistema politico. Incapace di essere un punto di riferimento credibile per i cittadini, tanto che le ultime elezioni amministrative hanno segnato un record dell’astensionismo. E tanto che, il sistema, non è stato nemmeno capace di trovare al suo interno qualcuno che potesse guidare il governo, dovendo ricorrere all’ennesimo tecnico. Sarebbe dunque molto meglio che il prossimo Capo dello stato (chiunque sarà, possibilmente una donna) venisse eletto in quanto tale, con i poteri che gli attribuisce la Costituzione e nulla più. A meno che non ci siamo ridotti, senza neanche accorgercene, a evocare “un uomo solo al comando”. Ma quello era Fausto Coppi, un ciclista.
Riccardo Barenghi