Puntualmente ad ogni anno, all’inizio della sessione di bilancio, scoppia la solita epidemia di “pensionite” (copyright Irene Tinagli, vice segretaria del Pd e presidente della Commissione Bilancio del Parlamento europeo) ovvero dell’idea che tutti i problemi si possono risolvere mandando i lavoratori in pensione. Ai lettori de Il Diario del lavoro sono note le misure contenute nel ddl per uscire da quota 100 (ormai prossima alla scadenza prevista nella legge istitutiva) ammorbidendo lo “scalone” che dovrebbe ripristinare quella “normalità” che secondo il governo è insita nella riforma Fornero del 2011. Sono ancora più note le richieste avanzate unitariamente dalle confederazioni sindacali e come sia state snobbate dal governo in occasione dell’incontro con i sindacati. Senza che sia necessario ricapitolare le proposte e far parlare i protagonisti, a me sembrano esservi alcuni antefatti – oggettivi e pubblici – che smentiscono clamorosamente il proseguimento di politiche incentrate sulla difesa di una particolare tipologia di pensioni (i trattamenti di anzianità) che hanno reso il nostro un sistema pensionistico anomalo. Anche altri Paesi hanno delle misure che, a fronte di requisiti definiti, consentono esodi anticipati rispetto alle regole canoniche dell’età di quiescenza. Di solito, oltre a requisiti congrui, sono previsti anche disincentivi economici; cosa che in Italia non avviene. Ciò che è sorprendente è la sproporzione tra il peso del pensionamento anticipato da noi rispetto ad altri Paesi. Come ha voluto sottolineare Giovanni Amerigo Giuliani sull’ultimo numero de Il Mulino, quello italiano l’Italia soffre di un sistema pensionistico ipertrofico e di una spesa sociale sbilanciata. “Nonostante le riforme di natura (più o meno) restrittiva che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni – dalla riforma Dini alla riforma Fornero – se paragonato agli altri Paesi europei, il nostro sistema pensionistico continua a rimanere ipertrofico. La spesa per pensioni nel 2018 è stata pari al 15,8% del Pil, un valore ben più elevato non solo dei Paesi nordici come Danimarca (12,3%) e Svezia (10,9%) o della rigorosa Germania (11,8%) ma anche dei «cugini mediterranei», Spagna (12,6%) e Portogallo (13,9%). Solo la Grecia ha registrato una spesa, di poco, maggiore (16,1%). Ma anche in questi confronti internazionali spicca la sproporzione riguardante il pensionamento anticipato. Se si analizza il dato disaggregato, l’Italia continua ad essere tra le nazioni che spende maggiormente per il pensionamento anticipato (1,4% del Pil nel 2018 contro lo 0,8% della Spagna, lo 0,6% della Svezia, lo 0,4% della Danimarca, lo 0,3% della Germania). Il risultato è una spesa sociale sbilanciata che predilige la copertura dei vecchi rischi sociali – ovvero quei rischi tipici dell’epoca fordista tradizionalmente coperti tramite misure passive – a scapito dei nuovi – comparsi a seguito del processo di de-industrializzazione e terziarizzazione dell’economia e della modernizzazione della società e che tendono a colpire soprattutto le nuove generazioni. Nel 2017, l’Italia ha speso solo lo 0,6% del Pil per i servizi alle famiglie – in primis, asili nido – ovvero meno della metà delle risorse destinate per finanziare la spesa per le pensioni anticipate! Se comparato agli altri Paesi europei inoltre, il dato è particolarmente deludente: non solo è inferiore ai Paesi scandinavi (2,2% la Svezia) o alla Germania (1,3%), ma anche alla Spagna (0,7). Non stupisce quindi che il tasso di iscrizione dei bambini della fascia 0-2 anni nei servizi della prima infanzia risulti essere – seppur con dei sostanziali miglioramenti rispetto ai decenni precedenti – tra i più bassi tra i Paesi dell’Europa occidentale e con forti differenze territoriali (26,1% contro il 38,2% della Spagna, il 37,7% della Germania e il 46,3% della Svezia).
In tale contesto, Quota 100 si è dimostrata essere una riforma sostanzialmente iniqua, privilegiando essenzialmente una categoria specifica di individui – nella stragrande maggioranza lavoratori dipendenti maschi, circa 70% – già coperti dal ben più generoso sistema retributivo – abrogato dalla riforma Dini e successivamente dalla riforma Fornero. Anche se la spesa finale è stata minore (11,9 miliardi) di quello preventivata – a causa di un numero minore di domande pervenute e la misura ha fallito sul piano occupazionale, dato che c’è stato un solo ingresso per ogni tre uscite. In sostanza la scelta è stata quella di utilizzare le (scarse) risorse disponibili a favore di un gruppo di insiders attraverso una riforma finanziata in deficit il cui costo è stato scaricato sulle nuove generazioni dei lavoratori. La sproporzione nella tutela dei “bisogni” diventa clamorosa se si considera che l’Italia spende solo lo 0,6% del Pil per i servizi alle famiglie – in primis, asili nido – ovvero meno della metà delle risorse destinate per finanziare la spesa per le pensioni anticipate. Vogliamo spiegare meglio e con dei numeri perché l’Italia è il “Paese dell’anticipo”? Giochiamo a torte in faccia. Nella prima, riguardante le pensioni in vigore il 1.12021 emerge con chiarezza che i trattamenti di anzianità sono per oltre due milioni superiori di quelli di vecchiaia.
Ecco le “fette” in cui si divide la torta (fonte: rcfp 2021)
Ma quale è l’età alla decorrenza delle diverse tipologie di pensione. Abbiamo dei dati freschi rilevati dall’Inps lo scorso 2 ottobre, riguardanti il FPLD.
FONDO PENSIONI LAVORATORI DIPENDENTI (fonte-Inps) | ||||||||||||||||
Rilevazione al 02/10/2021 | ||||||||||||||||
Sesso | Vecchiaia | Anticipate | Invalidità | Superstiti | Totale | |||||||||||
(1) | ||||||||||||||||
Decorrenti ANNO 2020 | ||||||||||||||||
Maschi | 66,8 | 61,6 | 54,2 | 76,8 | 64,2 | |||||||||||
Femmine | 67,1 | 61,0 | 53,2 | 74,8 | 69,2 | |||||||||||
Totale | 67,0 | 61,4 | 53,9 | 75,2 | 67,0 | |||||||||||
di cui: | Decorrenti gennaio – settembre 2020 | |||||||||||||||
Maschi | 66,8 | 61,7 | 54,2 | 76,8 | 64,3 | |||||||||||
Femmine | 67,1 | 61,0 | 53,1 | 74,8 | 69,2 | |||||||||||
Totale | 67,0 | 61,5 | 53,8 | 75,2 | 66,9 | |||||||||||
Maschi | 66,9 | 61,6 | 54,5 | 77,7 | 64,3 | |||||||||||
Femmine | 67,1 | 60,9 | 53,3 | 74,8 | 68,8 | |||||||||||
Totale | 67,0 | 61,3 | 54,0 | 75,3 | 66,8 | |||||||||||
Decorrenti gennaio – settembre 2021 (1) Compresi i prepensionamenti | ||||||||||||||||
aschi | 66,9 | 61,6 | 54,5 | 77,7 | 64,3 | |||||||||||
Femmine | 67,1 | 60,9 | 53,3 | 74,8 | 68,8 | |||||||||||
Totale
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Come si può vedere – complice quota 100 e dintorni – l’età media alla decorrenza del trattamento di anzianità non arriva a 62 anni. Occorre poi ricordare (anche se tutti sembrano esserselo dimenticato) che fino al 2026 restano congelati rispetto all’adeguamento automatico all’aumento della attesa di vita, i requisiti del pensionamento ordinario di anzianità (a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) che si è rivelata una via d’uscita più favorevole di quota 100: 283mila pensionamenti contro 271mila all’ inizio dell’anno in corso.
Vi è poi un limite culturale inaccettabile nel dibattito corrente sulle pensioni: non si tiene per nulla conto dei trend demografici che sono il tapis roulant dove si muovono i sistemi pensionistici. Come si fa a non vedere che quelli che vanno in pensione oggi appartengono a generazioni con un milione di nati ogni anno, mentre le nascite di oggi non arrivano a 400mila? Tra vent’anni quando questi ultimi entreranno nel mercato del lavoro, i primi saranno ancora a godersi la pensione. Ma i primi saranno meno dei secondi, senza porsi peraltro il problema del reddito e della qualità dell’occupazione.
Secondo le proiezioni dell’Istat alla metà del prossimo decennio, nel 2035, potrebbero esserci in Italia poco più di 5 milioni di persone in meno in età lavorativa (convenzionalmente dai 15 ai 64 anni). Come se sparissero tre grandi città come Roma, Milano e Napoli. Colpa della progressiva fuoriuscita dei baby boomers dal mondo del lavoro: una gran parte dei nati nel dopoguerra è già passata alla pensione ed entro nove anni, nel 2030, praticamente tutti coloro che sono catalogati in questo cluster (nati tra il 1946 e il 1970) avranno abbandonato la fascia d’età che si accompagna al lavoro attivo.
Dobbiamo mandare in giro Greta Thunberg per denunciare una crisi altrettanto grave di quella del clima?
Giuliano Cazzola