Non è ancora chiaro se il Governo voglia effettivamente aprire un confronto con le organizzazioni sindacali sul sistema previdenziale, con l’obiettivo di definirne un nuovo assetto organico e duraturo, che abbia come vincolo “irremovibile”, secondo le parole del Presidente del Consiglio Draghi, l’approdo al sistema contributivo.
Se così fosse, la prima considerazione che viene spontanea è: perché non lo si è fatto fino a ora, ignorando invece le ripetute sollecitazioni sindacali? E perché il ministro del Lavoro Orlando, in tutti questi mesi, ha giocato a rimpiattino sui temi previdenziali?
Il fatto che ora il governo offra questa disponibilità, a poche settimane dall’approvazione della legge di bilancio e magari rimandando le scelte al prossimo anno, con tutte incertezze connesse alla stabilità del quadro politico e – soprattutto – a fronte di una annunciata mobilitazione sindacale, rende tutto più complicato.
Ma se la disponibilità del governo di muoversi in quella direzione fosse reale, allora non ci sarebbe tempo da perdere: andrebbe immediatamente avviato un confronto, con una agenda ben precisa, che affronti contestualmente sia i temi legati alla prospettiva sia le insufficienze presenti nelle misure previdenziali previste nella proposta di legge di bilancio approvata dal CdM.
I tempi sono stretti, ma non si partirebbe da zero. Malgrado l’immobilismo dell’Esecutivo sulla previdenza in questo ultimo periodo sono tanti i contributi di analisi e le proposte emerse: sia nell’approfondimento scientifico ed accademico, sia nella discussione politica e anche attraverso numerose proposte di legge. Oltre, naturalmente, alla nostra Piattaforma sindacale unitaria, che per noi è la base da cui partire e che, al di la di come la si pensi nel merito, ha l’ambizione di considerare la realtà sociale e del lavoro per quella che è oggi e di proporre una ipotesi organica e strutturale, che possa reggere anche in prospettiva, senza più bisogno di ricorrenti provvedimenti tampone, sperimentali o a termine, che in questi anni hanno lasciato le persone nella più totale incertezza.
Se vi fosse la volontà di avviare un confronto vero e serrato nei tempi, da gestire nell’iter della legge di bilancio, con la volontà di ridisegnare il sistema in coerenza con gli obiettivi di una sostenibilità economica e sociale, sarebbe utile assumere un approccio molto concreto, fuori dalla logica degli slogan e delle bandierine di partito, partendo dal dato oggettivo: e cioè che ormai siamo in un sistema prevalentemente contributivo, e lo sarà sempre di più in futuro.
Innanzi tutto sarebbe opportuno recuperare per intero il concetto di flessibilità in uscita introdotto con il sistema contributivo dalla riforma Dini: non più un’età rigida di pensionamento ma un arco temporale entro cui consentire alle persone di decidere quando andare in pensione. La riforma Dini lo prevedeva da 57 a 65 anni, con 20 anni di contributi e avendo maturato una pensione di almeno 1,2 volte l’assegno sociale. Anche la Legge Fornero prevede tale possibilità ma con ben altre condizioni, 63 anni di età legati alla speranza di vita (ora pertanto siamo già a 64 anni) con 20 anni di contributi ma avendo maturato una pensione di almeno 2,8 volte l’assegno sociale: valore talmente alto che ne snatura la funzione e ne discrimina pesantemente l’accesso su base reddituale.
Si può riproporre questo schema, magari valutando e simulando gli impatti dei diversi requisiti d’accesso? E considerando che il paniere previdenziale di ciascuno è ormai per almeno i due terzi nel calcolo contributivo, si può ricondurre a questa flessibilità anche chi è nel sistema misto?
Un fatto molto importante da sottolineare è che la componente contributiva del paniere previdenziale determina un forte incentivo alla permanenza al lavoro, e questo significa che l’introduzione di un sistema di flessibilità non contrasterebbe con l’obiettivo di un graduale innalzamento dell’età media di pensionamento. Lo abbiamo già visto con Quota 100, utilizzata da meno del 40% degli aventi diritto. Inoltre, qualunque anticipo pensionistico in questo contesto rappresenterebbe non un costo aggiuntivo ma solo una anticipazione di spesa.
In quest’ottica andrebbe anche riconsiderato il tema dei 41 anni di contribuzione, valutandone il costo reale calcolato nella logica attuariale e considerando un numero limitato di reali utilizzatori.
Vi è poi l’esigenza di introdurre nel sistema contributivo (che sostanzialmente è un sistema di natura assicurativa) alcuni elementi di equità e di solidarietà nei confronti di chi oggi viene penalizzato o è più in difficoltà; il lavoro della Commissione sui lavori gravosi, ancora non concluso, è un buon punto di partenza.
Va inoltre valutato con serietà il tema delle donne, superando la parzialità e la provvisorietà di Opzione Donna e tutelando il lavoro di cura; vanno rafforzate le possibilità di anticipo pensionistico per i disoccupati; e soprattutto va offerta ai giovani una prospettiva previdenziale diversa, visto che sono destinati a subire le condizioni peggiori previste dall’attuale normativa.
Per quanto concerne le risorse necessarie: al netto delle considerazioni fatte rispetto al criterio attuariale nella determinazione dei costi e alle ricadute finanziarie a medio e lungo termine, risorse economiche importanti possono derivare dai risparmi di spesa che si stanno realizzando da Quota 100 e che non sono già state diversamente impegnate, cifra che si aggira attorno ai 5 miliardi.
Partendo da questi presupposti metodologici, la cui possibile condivisione ritengo possa essere ampia, ben al di là del perimetro sindacale, ci sarebbero le ragioni, le idee e gli elementi di sostenibilità per consentire un lavoro serio, che possa definire un sistema stabile anche in prospettiva, e parli a tutti i generi e a tutte le generazioni. Il Governo apra questo laboratorio, si ponga l’obiettivo di dare nuove e più accettabili certezze al Paese, dia un significato vero alla parola “riforma”.
Roberto Ghiselli, segretario confederale Cgil