Mentre si discute animatamente su quanto siano pericolosi questi fascisti che invadono sedi sindacali e ospedali, si scontrano con la polizia mettendo a ferro e fuoco il centro di Roma in un sabato pomeriggio, e si riflette su quanto sia opportuno metterli fuorilegge. Mentre infuria la polemica tra una destra che non riesce a prendere definitive distanze da questo mondo neofascista (anzi, non vuole perché lì dentro non solo ci sono suoi elettori ma anche le sue radici) e la sinistra che invece insiste nel battere sul chiodo dell’antifascismo, perché ha finalmente trovato il punto più debole dei suoi avversari. Mentre mancano poche ore ai ballottaggi che potrebbero sancire la definitiva vittoria del centrosinistra nelle elezioni comunali, uno su tutti quello di Roma.
Ecco, mentre succede tutto questo, restano sullo sfondo domande cruciali: cosa accadrà alle elezioni politiche previste tra un anno e mezzo? E come ci si arriverà, quali saranno gli schieramenti, ce ne saranno due o tre o addirittura quattro? E infine, chi sarà il Presidente della Repubblica che a febbraio dovrà sostituire Sergio Mattarella?
Difficilissimo fare pronostici e previsioni, a cominciare dal Quirinale: dove potrebbe arrivare Mario Draghi, che però in questo caso dovrebbe lasciare la guida di un governo che finora ha lavorato piuttosto bene sia sulla campagna vaccinale sia sulla ripresa economica, riuscendo a tenere insieme una maggioranza così tanto eterogenea che nessuno avrebbe scommesso mezzo euro sulla sua tenuta. E infatti c’è chi – Matteo Salvini – vorrebbe eleggere Draghi Capo dello Stato proprio per liberarsi di questo governo in cui si sente più che a disagio (eufemismo), per andare alle elezioni nella primavera prossima, sperando che nel frattempo il suo campo politico, cioè il centrodestra, non si sia sfasciato. Si vedrà a febbraio.
Intanto, c’è chi lavora alacremente per costruire l’altro campo, quello che potrebbe, anzi dovrebbe sfidare Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia nelle urne e nel Paese. Colui che si sta spendendo di più per questa missione si chiama Enrico Letta ed è il segretario del Partito democratico. La sua idea è quella di costruire “un campo largo”, nel quale possano ritrovarsi tutti coloro che non stanno a destra, dal Pd ai Cinquestelle, da Renzi a Calenda, da Bersani e Speranza fino a Fratoianni e Vendola (pare che l’ex leader di Sel sia intenzionato a rientrare nel gioco politico). E’ un progetto verosimile? O è solo un tentativo velleitario che non riuscirà a concretizzarsi? Oppure, peggio, si tratta di semplice tattica: io ci provo sapendo che qualcuno mi dirà di no, così posso presentarmi agli elettori come quello che ha tentato di tutto per unire i progressisti. E se poi il gioco non riesce e perdiamo le elezioni, la colpa non sarà mia.
Ma al di là della tattica, il problema è la strategia. Ovvero, il progetto politico. E’ giusta l’idea di mettere tutti insieme per combattere la destra? Oppure, così facendo si rischia di riprodurre la nefasta esperienza dell’Unione di Prodi del 2006, in cui trovarono posto da Mastella a Turigliatto (e infatti quel governo durò due anni scarsi)? Ora, figuriamoci, se sul serio un nuovo fascismo fosse alle porte, allora certo che bisognerebbe fare di tutto e mettere insieme tutti e cercare di scongiurare il pericolo. Sulla falsariga del Comitato di liberazione nazionale che guidò la Resistenza tra il 1943 e il 1945. Ma se così non fosse, se i partiti che sono vicini a questi nuovi fascisti non fossero totalmente fascisti a loro volta, allora si porrebbe il problema di cosa sia la sinistra e di chi e come dovrebbe scegliere per dar vita a un eventuale governo che possa fare qualcosa di buono e che, soprattutto, sia in grado di avere una visione comune al proprio interno, una coerenza ideale e pratica.
Ecco, il punto debole del “campo largo” di Letta è proprio questo. Prendiamo Matteo Renzi, un uomo che malgrado abbia fatto il leader del Pd, assomiglia sempre di più un businessman che usa il suo ruolo politico e istituzionale di senatore, e la sua notorietà, per fare affari dall’Arabia saudita alla Russia (Paesi non certamente campioni nel campo dei diritti umani). Per non parlare della sua politica italiana, sempre più vicina al modello berlusconiano: con l’obiettivo ormai quasi esplicito di diventare una sorta di erede del Cavaliere. Oppure, prendiamo Carlo Calenda: difficile intravvedere in lui un qualcosa che ricordi la sinistra, per quanto moderata si voglia. Un tecnocrate cresciuto alla Ferrari e poi in Confindustria, pupillo di Luca Cordero di Montezemolo, che su qualsiasi tema ha un’idea lontanissima da quelle che dovrebbero caratterizzare la sinistra. E che, come Renzi del resto, non perde occasione per attaccare il Pd, come se fosse proprio il Partito di Letta il suo nemico principale. Basti pensare al fatto che si fece eleggere in Europa dal Partito democratico per uscirne due mesi dopo, oppure alla sua conduzione della campagna elettorale romana: la destra per lui non esisteva, lui doveva prendere più voti possibili ai Dem. Non c’è riuscito e alla fine, obtorto collo ha dichiarato che voterà per Roberto Gualtieri, senza però dare indicazione dei voto ai suoi elettori.
Infine, i Cinquestelle: è evidente che Giuseppe Conte, leader travicello del Movimento, ha puntato tutta le sue carte sull’alleanza col Pd. Ma non basta un Conte, la galassia grillina è così frammentata (per non dire frantumata), e contiene al suo interno frange consistenti che odiano il Partito democratico (vedi Virginia Raggi) per cui appare una missione impossibile poter contare su di loro. Anche perché, dal punto di vista dei contenuti, sono troppe le questioni sulle quali Democratici e Cinquestelle non vanno d’accordo: dai vaccini al Green pass, dall’Europa alla collocazione nello scacchiere internazionale: Usa o Cina, passando per la Russia?
Come si vede la sfida di Letta è lunga e piena di insidie, ma è meglio sapere prima a cosa si va incontro per evitare i sfracellarsi contro un muro come capitò alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto nel 1994. Così, forse, il leader del Pd potrebbe anche cambiare strategia e magari allearsi solo con chi condivide, se non tutto, almeno una buona parte del suo progetto. Magari, chissà, con un’idea chiara e degli alleati coerenti, la partita contro questa destra pericolosa si potrebbe anche vincere. Ripensando a quel che disse Walter Veltroni in un’intervista al “manifesto” quando era segretario dei Ds, in polemica con Massimo D’Alema che pur di restare al governo si era alleato con Cossiga e Mastella: “Meglio perdere che perdersi”.