“Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente…”. Così cantava Franco Battiato tanto tempo fa. E noi che il centro lo abbiamo conosciuto per cinquant’ anni non è che ne abbiamo nostalgia. La Democrazia cristiana, ovvero quel centro politico, ci aveva anche stancato. E così salutammo con un certo sollievo la nascita della seconda Repubblica: una destra e una sinistra contrapposte, due schieramenti politici che avevano (ancora hanno) due idee molto diverse di società, economia, diritti e alleanze. Due visioni del mondo insomma.
Poi però, via via che il tempo passava e le elezioni si susseguivano, scoprimmo che questi due Poli non riuscivano a vincere, a meno che non facessero ricorso a partitini più centrali, vedi Berlusconi con Casini o D’Alema con Mastella tanto per fare due esempi. E ovviamente non sono mancate decine e decine di analisi, opinioni, interviste che spiegavano come e perché le elezioni si vincono al centro. Cosa nient’affatto vera, almeno a guardare altri Paesi a noi vicini: Francia, Spagna, la stessa Germania. Ma tant’è, questo è stato il leit motiv che ci ha accompagnato nei primi due decenni del nuovo Millennio. Così che è stato tutto un fiorire di piccole formazioni politiche, un po’ democristiane, un po’ socialiste, un po’ liberali che si alleavano con la destra o con la sinistra per ottenere posti di governo ed esercitare un potere di interdizione se non di ricatto. Non sono mancati naturalmente neanche quelli che da sinistra hanno fatto lo stesso gioco, vedi Rifondazione o altri ancora più piccoli, ma questa è un’altra storia mentre qui vogliamo parafrasare Cartesio: “Centro, ergo sum”.
Il quale è tornato prepotentemente sulla scena all’indomani delle elezioni amministrative di pochi giorni fa, grazie (o a causa) di due personaggi molto simili tra loro, soprattutto per un carattere irruento: Carlo Calenda e Matteo Renzi. Come se questi due avessero vinto le elezioni, sono lì tutti i giorni in televisione, sui famigerati social e sui giornali a dettare condizioni alla destra e alla sinistra. Prefigurando per di più il loro progetto politico per il futuro: appunto il Centro, né di qua né di là. O meglio: un po’ di qua e un po’ di là, a seconda delle convenienze del momento e di quello che riusciranno ottenere da una parte o dall’altra. Ora, bisogna per forza segnalare che loro le elezioni non le hanno vinte, tutt’altro. Calenda è arrivato terzo a Roma, e pur ottenendo un lusinghiero 19 per cento non andrà al ballottaggio e tantomeno farà il sindaco. Obiettivo quest’ultimo che era il suo esplicito scopo, per raggiungere il quale non ha esitato a giocare la partita nel modo più spregiudicato e arrogante possibile. Si era fatto eleggere dal Pd al Parlamento europeo per poi lasciare il Partito perché non era d’accordo con la strategia di Zingaretti (intesa con i Cinquestelle). Dopo di che si è candidato a sindaco di Roma, rifiutando qualsiasi possibilità di accordo con i Dem e anzi attaccandoli un giorno sì e l’altro pure, rifiutando di partecipare alle primarie e marciando da solo contro tutto e tutti. Il risultato è appunto il terzo posto.
L’altro lo conosciamo bene: malgrado il suo minuscolo partito abbia ottenuto circa il 2 per cento, canta vittoria perché in alcune città ha superato i Cinquestelle ed ha ottenuto qualche sindaco in paesini irrilevanti. Prefigura questo grande Centro in cui dovrebbero accomodarsi anche Calenda e pezzi di Forza Italia e che potrà dare le carte, prima per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e poi alle politiche del 2023.
Nella spasmodica attesa di conoscere quali saranno le mosse di questi due fenomeni della nostra vita politica, occupiamoci di chi ha vinto e ha perso le amministrative. Le ha indubbiamente vinte il Pd di Enrico Letta, che tra l’altro è riuscito a farsi eleggere alla Camera nel difficile collegio di Siena (lo scandalo Montepaschi ancora brucia), oltre a vincere al primo turno a Milano con Beppe Sala, a Bologna con Matteo Lepore, e a Napoli con Gaetano Manfredi. Inoltre il candidato del Partito democratico a Roma, Roberto Gualtieri, va alla ballottaggio contro l’improbabile Enrico Michetti, sbiadita controfigura di Giorgia Meloni, ed ha buone possibilità di vincere. Così come Stefano Lo Russo, che ha rovesciato i pronostici arrivando davanti al candidato della destra Paolo Damilano. Se la vedrà al ballottaggio.
Dunque vince il Pd, perde la destra e perdono pure i Cinquestelle. Una sconfitta, quest’ultima, che può pesare negativamente sulla strategia di Letta: costruire un campo largo di centrosinistra per battere Salvini, Meloni e quel che resterà di Forza Italia tra un anno e mezzo. Si vedrà, Letta spera che Giuseppe Conte riesca a rianimare i malandati Pentastellati, portandoli sulla strada giusta.
Nel frattempo però può essere felice della batosta presa dalla destra, più dalla Lega che da Fratelli d’Italia, che pagano la scelta di candidati sconosciuti e inadeguati e soprattutto la loro ambiguità su vaccini e green pass (sperando nei voti dei no vax che però non sono arrivati).
La Lega ha ottenuto un risultato più che modesto, basti pensare che a Milano (a Milano) ha ottenuto solo l’11 per cento. E la reazione della Bestia ferita non si è fatta attendere: Salvini ha immediatamente scaricato sul governo il suo nervosismo, ordinando ai “suoi” ministri di abbandonare la riunione dell’esecutivo e quindi di non votare la legge delega sul fisco e sul catasto. Uno strappo pesante, accompagnato da parole non proprio amichevoli nei confronti di Mario Draghi, accusato di comportamento scorretto. Il premier gli ha risposto seccamente: “Il governo va avanti e non segue il calendario elettorale”.
Significa che La Lega sta per uscire dalla maggioranza, chiudendo così questi nove mesi di penoso oscillare tra governo e opposizione? Può darsi, ma mentre scriviamo certezze non ve ne sono, anzi il suo leader ha dichiarato che loro restano dove sono e che semmai siano Letta e Conte ad andarsene. Certamente, però, la sofferenza di Salvini è ormai arrivata al culmine: dover stare al governo, condividendo poco o nulla di quel che Draghi decide (insieme ai suoi ministri, compresi quelli leghisti), mentre la Meloni galoppa nelle praterie dell’opposizione, gli costa parecchio: in termini di voti e soprattutto di nervi.
Riccardo Barenghi