Piangiamo un altro grande amico che se ne è andato via. E’ morto Bruno Ugolini, il decano dei giornalisti sindacali, un fratello per tanti di noi, sicuramente per me. La notizia della sua morte purtroppo non ci ha colti impreparati perché sapevamo tutti che stava male, molto male, ma lo stesso è stato un colpo fortissimo perché non eravamo pronti a lasciarlo andare via. Era il nostro autorevole punto di riferimento. Quando abitava ancora a Milano spesso veniva a Roma per qualche evento, una trattativa, un consiglio sindacale, e allora tutti eravamo certi che si trattava di una cosa importante. E’ arrivato Bruno, dicevamo, allora la notizia c’è. E lui, con il suo sorriso, il suo buon umore, la sua ironia, la sua intelligenza superiore, la sua capacità di analisi, con noi colleghi non si risparmiava, era prodigo di consigli, aiuti, soccorsi quando era necessario. Ha scritto tutta la vita su l’Unità, il giornale del Pci. Su Il diario del lavoro ha scritto solo molto raramente, nonostante io insistessi. Ma non c’era verso, non voleva, il suo giornale era quello, per quella testata aveva sempre scritto, le è rimasto fedele fino all’ultimo. E quando la grande Unità ha chiuso i battenti si è iscritto subito a Striscia rossa, l’online nel quale si erano radunati i profughi della testata comunista che li aveva affratellati. E lì ha continuato a scrivere.
Era la voce di Bruno Trentin, che aveva una stima infinita in lui. Il 31 luglio del 1992 Bruno Trentin, che era segretario generale della Cgil, firmò un importante accordo con Giuliano Amato, che era presidente del Consiglio. Il consiglio generale della Cgil gli aveva dato un incarico differente, ma lui sapeva che il momento era tragico, che serviva un atto forte e, con il voto a favore della segreteria, firmò l’intesa nella notte e si dimise dalla sua carica. Poi sparì, tutta Italia lo cercava, ma lui era irreperibile. Alla fine, dopo qualche giorno, un amico lo incontrò in Corsica, dove era andato con la sua Marie, e gli disse che, appunto, tutta Italia lo cercava per capire cosa fosse davvero successo. Lui non fece una piega, chiamò Ugolini e gli dette una lunghissima intervista, due pagine intere di giornale. Non poteva che affidarsi a lui, che stimava più di chiunque altro, l’unico di cui si fidava veramente. Avevano scritto tanti libri assieme, pensavano le stesse cose, avevano gli stessi ideali.
Ma Bruno non era solo lavoro, amava la compagnia, divertirsi, lasciarsi andare. Era sempre pronto a tutto, qualsiasi avventura, piccola o grande, lo affascinava. Con lui abbiamo ballato, sciato, viaggiato, ovunque, sempre con il suo sorriso. Era colonna portante della cupola, consorteria del giornalismo sindacale: eravamo in sette, oltre a noi due c’erano Riccardo, Marco, Vittoria, Margherita, Paola. Non ci lasciavamo mai, quando eravamo in trasferta stavamo sempre assieme, scrivevamo assieme, cenavamo assieme, poi andavamo a ballare fino a tardi. E lui era sempre lì, pronto a tutto, un bambino cresciuto che sembrava guardare il mondo con gli occhi spalancati dalla meraviglia e dalla voglia di fare tutto, non perdersi nulla, mai. Si è sposato tre volte, ha amato e tanto è stato amato. Alle sue donne dedicava belle poesie e faceva promesse, anche quelle irrealizzabili. Perché ci credeva davvero, le voleva fare quelle cose, anche se la vita poi non glielo permetteva.
E’ inutile dire che resterà nei nostri cuori, perché lui è il nostro cuore. Un fratello, caro, amato, che ci ha onorato della sua amicizia, della sua stima. E noi a nostra volta lo abbiamo sempre stimato perché era un uomo buono e giusto, forte e quando serviva inflessibile. Libero, autonomo, fedele ai suoi ideali, ai suoi credo. Non li ha traditi mai, la sua ironia graffiante non glielo avrebbe permesso. Ha vissuto bene, è stato felice, sembrava malinconico, ma non lo era, amava la vita e noi siamo felici di averlo aiutato a godersela fino in fondo.
Massimo Mascini
***
Bruno Ugolini a 19 anni, aiutato dal padre, cominciò a lavorare alla casa editrice La Scuola di Brescia, che se ho capito bene pubblicava libri scolastici. Un’istituzione profondamente cattolica, inserita nella Brescia di quegli anni, intrisa di cattolicesimo. Bruno, che veniva da una famiglia cattolica, non si trovava a suo agio in questa azienda, ma restò lì per sei anni. Nel 1960, suo padre era morto da sei mesi, inviò una lettera all’azienda per chiedere di essere licenziato. Una lettera bellissima, soprattutto se si pensa che è stata scritta da un ragazzo di 25 anni, un testamento, verrebbe da dire, morale, politico, nel quale Bruno indica il percorso che lo ha portato a scegliere il comunismo, per il quale poi continuerà a battersi per altri sessantuno anni ininterrottamente. Non ne poteva più dell’ambiente nel quale era stato costretto a vivere e a lavorare e scelse di andarsene e ne spiegò in questa lettera i motivi. Erano anni ruggenti, nel 1960 il governo Tambroni portò il paese sull’orlo della guerra civile, ma la spinta che ebbe Bruno scaturì soprattutto dalla falsità e vacuità dell’ambiente in cui lavorava, a confronto con quello in cui avrebbe poi lavorato per il resto della sua vita. Riproponiamo ai nostri lettori il testo di questa lettera, per tanti versi attualissima nonostante tutto quanto sia successo in Italia in questi anni.