Luciano Lama, che va sicuramente annoverato fra i sindacalisti più grandi, e più amati, della storia del nostro Paese, nacque a Gambettola (all’epoca in provincia di Forlì) nel 1921. Quest’anno ricorre dunque il centenario della sua nascita. E la Fondazione “Di Vittorio” ha meritoriamente deciso di cogliere l’occasione, offerta da questo anniversario, per avviare un ciclo di giornate di studio, volte ad aprire una riflessione storiografica sul ruolo che Lama ha avuto nella vita politica e sindacale della seconda metà del ‘900.
Perché abbiamo detto “meritoriamente”? Perché la figura di Lama è stata una figura dominante sulla scena pubblica italiana non solo per un periodo particolarmente lungo, ma anche in anni particolarmente densi e decisivi per la vicenda sindacale. E’ così accaduto che non solo i militanti e i dirigenti sindacali, ma anche i giornalisti, gli storici e gli intellettuali appartenenti a un paio di generazioni lo abbiano considerato a lungo come un loro contemporaneo, quasi come se fosse presente anche dopo la sua scomparsa, e abbiano quindi faticato ad accettare l’idea che possa costituire l’oggetto di uno studio storico.
Ma ormai, passato un quarto di secolo da tale scomparsa, questo lavoro di indagine storica andrà pure intrapreso. E si vedrà allora, come si comincia a vedere, che – al di là del fascino che ha esercitato, e dell’affetto che si è conquistato – vi sono diversi aspetti della sua azione che meritano di essere approfonditi e ripensati. Aspetti che, per l’indagine storica, costituiranno sicuramente altrettanti nodi problematici.
Questo lavoro di ricerca ha dunque preso avvio nel pomeriggio di lunedì 31 maggio, ovvero a 25 anni esatti dalla scomparsa di Lama, avvenuta il 31 maggio del 1996. E ha preso avvio con un convegno online organizzato dalla Fondazione “Di Vittorio” su collettiva.it e intitolato “La Cgil di Luciano Lama”.
Chi è stato, dunque, Luciano Lama? Su certi aspetti della sua figura, come su certi passaggi della sua azione, c’è un giudizio consolidato che non pare poter essere oggetto di particolari interrogativi. A partire dai suoi inizi.
E’ noto che, come tanti altri dirigenti Cgil della sua generazione – fra cui Piero Boni, Vittorio Foa, Pio Galli e Bruno Trentin -, Lama fu, prima di entrare nel sindacato, un giovane partigiano. Un partigiano la cui esperienza resistenziale fu dolorosamente segnata, nel suo caso, dalla perdita del fratello, ucciso in combattimento. Sappiamo anche che dopo la liberazione di Forlì (novembre 1944), fu affidato a lui, che era figlio di un ferroviere socialista, il ruolo di dirigere la locale Camera del Lavoro. E’ in quel ruolo che le sue potenziali capacità vengono intuite da quel grande talent scout che rispondeva al nome di Giuseppe Di Vittorio. E fu così che, chiamato da quest’ultimo, Lama si ritrovò nel 1947, a soli 26 anni, a vestire i panni di vice-segretario della Cgil.
La sua formazione di dirigente sindacale si arricchisce poi con importanti esperienze di categoria. Nel ‘52, la Cgil di Di Vittorio lo manda alla Filcea, il sindacato dei chimici. Nel ‘58, quando, dopo la morte di Di Vittorio, Agostino Novella ha preso il posto di quest’ultimo alla testa della Cgil, Lama diventa segretario generale della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Infine, nel ‘62, Novella lo richiama in Cgil.
Lama ancora non lo sa, ma sarà destinato a restare presso la sede nazionale di corso d’Italia per 24 anni. Prima come membro della segreteria confederale, poi – dal 1970 e fino al 1986 – come Segretario generale della Cgil. E già da questi cenni biografici si può ben comprendere una frase di Lama che, in apertura del convegno, è stata ricordata da Rossella, una delle sue due figlie: “La Cgil mi ha fatto come sono”.
Col 1970 inizia dunque la storia del personaggio Lama. Ovvero quella storia che, se non tutti, molti ricordano. Il Lama che, per un quindicennio, è a capo del maggior sindacato italiano: la Cgil. Il Lama che, dal ‘72 all’84, costituisce una delle figure più rappresentative della Federazione Cgil-Cisl-Uil, il massimo risultato organizzativo frutto della spinta unitaria dell’autunno caldo del 1969. Il Lama che cammina alla testa dei cortei sindacali, parla dall’alto dei palchi dei comizi e compare nei telegiornali della sera. Il Lama con l’immancabile pipa, serio ma non serioso, l’impersonificazione stessa della forza responsabile del movimento dei lavoratori.
Ma già fin qui sono contenuti e sono quindi rintracciabili alcuni dei temi essenziali con cui dovrà confrontarsi la ricerca storica. A partire dal doppio tema del rapporto di Lama con Di Vittorio e con Novella.
Mi sono permesso di definire Di Vittorio un talent scout. Credo infatti che Di Vittorio abbia avuto un ruolo fondamentale nel coinvolgere nel lavoro sindacale e promuovere precocemente almeno tre dei futuri grandi dirigenti della Cgil: Lama, Foa e Trentin. Tre uomini molto diversi da lui, per origini e propensioni. E di cui, tuttavia, seppe intuire le potenzialità. E su cui ebbe grande influenza.
Nella sua relazione al convegno di cui stiamo parlando, Edmondo Montali, direttore della sezione Storia e Memoria della Fondazione “Di Vittorio”, ha osservato che al centro dell’azione di Lama vi sono tre princìpi: l’unità dei lavoratori, l’autonomia sindacale e la democrazia sindacale.
Come parole d’ordine, possono sembrare ovvie. Ma se diventano princìpi ordinatori di concrete battaglie di linea sindacale, sono tutt’altro che ovvie. E, almeno le prime due, Lama le ha sicuramente ereditate da Di Vittorio. Che pensava che l’unità fosse la premessa della forza del movimento dei lavoratori e si era battuto già prima del fascismo per l’unità fra i lavoratori del Sud e quelli del Nord, nonché fra i lavoratori della terra e quelli delle fabbriche. Poi, dopo l’avvento di Mussolini, per l’unità fra comunisti e socialisti. E infine, dopo la rottura della Cgil unitaria (1948), aveva indicato l’obiettivo della riconquista dell’unità fra Cgil, Cisl e Uil.
Coerentemente a questa visione della centralità del tema dell’unità dei lavoratori, già dal tempo del Patto di Roma, che portò alla fondazione della Cgil unitaria (1944), Di Vittorio propugnò l’autonomia della rappresentanza sociale, esercitata dai sindacati, dalla rappresentanza politica, esercitata dai partiti. Perché temeva quel che poi accadde, ovvero che il conflitto tra i partiti antifascisti, riapertosi dopo la Liberazione, lacerasse l’unità sindacale.
Montali ha ricordato che lo stesso Lama confessò di aver provato un senso di sollievo al momento della fuoruscita dei democristiani dalla Cgil unitaria. Ma Di Vittorio lo prese da parte e gli disse che doveva capire che “divisi siamo più deboli”.
Dunque unità e autonomia: questa la lezione di Di Vittorio. Ma abbiamo detto che Lama deve molto anche ad Agostino Novella. E infatti, dopo la morte di Di Vittorio, che come dirigente sindacale era stato particolarmente legato all’esperienza “orizzontale” delle Camere del lavoro, Novella, da nuovo segretario generale della Cgil, intraprese un rafforzamento delle strutture “verticali”, ovvero delle categorie, a partire da quelle dell’industria.
Ed ecco dunque Lama misurarsi con la nuova unità che nasce in fabbrica dentro lo sviluppo capitalistico. Nel 1960, quando Lama è Segretario generale della Fiom già da due anni, si accende la lotta degli elettromeccanici che ha a Milano il proprio epicentro. E così Lama prima contrasta, poi accetta l’idea della manifestazione sindacale da tenere il 25 dicembre davanti al Duomo di Milano, dove officia il Cardinale Giovanni Battista Montini. E’ il Natale in piazza, l’evento simbolo dell’avvio della riscossa operaia che attraversa tutto il decennio, fino all’Autunno caldo del 1969.
Ma il ‘69, per Lama, è anche l’anno in cui si dimetterà dalla Camera dei Deputati, dove è stato eletto, quale deputato del Pci, per tre legislature consecutive: 1958, 1963 e 1968. E si dimette da Deputato, come anche da membro del Comitato centrale e della Direzione del Pci, per applicare le nuove norme sull’incompatibilità fra incarichi politici e sindacali. Norme volte, appunto, a sancire l’autonomia dei sindacati dai partiti per favorire gli avanzamenti del processo unitario.
Non solo. Il ciclo di lotte operaie del ‘68-69, che culminerà nel gennaio del 1970 col rinnovo del Contratto dei metalmeccanici, porta anche, in un primo tempo, all’elezione, in un numero crescente di fabbriche, di delegati di reparto; e poi alla riunione di questi delegati nei nuovi Consigli di fabbrica. E qui siamo al terzo dei princìpi ricordati da Montali. Perché i Consigli diventano ben presto strutture unitarie e articolazioni di base di una nuova, più esigente, democrazia sindacale.
Andando oltre gli stessi insegnamenti dei suoi maestri, Lama diventa così, assieme a Trentin (in quella fase alla Fiom-Cgil), a Pierre Carniti (Fim-Cisl) e a Giorgio Benvenuto (Uilm-Uil), uno dei protagonisti di quella rivoluzione organizzativa che, come si è detto, approderà nel 1972 al Patto federativo che darà vita alla Federazione Cgil-Cisl-Uil. Una federazione unitaria, autonoma dai partiti politici e basata sui Consigli di fabbrica.
Ma a questo punto non si tratta solo di conquistare nuovi contratti di categoria che, fra l’altro, estendano e consolidino il diritto a esercitare la contrattazione aziendale. Come ha detto nel corso del convegno Lorenzo Bertucelli, docente all’Università di Modena e Reggio-Emilia, per Lama la forza del lavoro sindacalizzato “non deve restare chiusa in fabbrica”; al contrario, deve riversarsi nella società. Lama si fa così propugnatore della “strategia delle riforme”. Una strategia in base alla quale il sindacato, che si è fatto soggetto politico, anche se non partitico, pur respingendo ogni tentazione pansindacalista, vuole migliorare non solo le condizioni di lavoro, ma l’intera condizione sociale dei salariati. Una strategia che otterrà nel 1978 il suo risultato più significativo, e duraturo, con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Gli anni ‘70, dunque. Anni irti di difficoltà. Almeno su tre piani.
Innanzitutto, infatti, gli anni ‘70 sono anche gli anni di piombo. Una fase inaugurata con le bombe del 12 dicembre 1969. Ma contro lo stragismo nero il sindacato regge benissimo. Fin dalla composta, severa e massiccia presenza di lavoratori ai funerali delle vittime della strage alla Banca dell’Agricoltura, a Milano. Funerali che si tengono proprio in piazza Duomo, la stessa che nove anni prima era stata invasa dagli elettromeccanici e dalle loro famiglie. Le bombe fasciste torneranno a colpire direttamente anche il movimento sindacale, come avverrà a Brescia, con la strage di piazza della Loggia, nel maggio del 1974. Ma il muro umano delle manifestazioni sindacali si trasforma in un argine che risulterà invalicabile per ogni tentazione golpista.
Ma gli anni ‘70 sono anche gli anni del terrorismo delle Brigate Rosse. Un terrorismo feroce e insidioso che viene però sconfitto proprio dalla fortissima reazione sindacale all’assassinio di Guido Rossa, un operaio dell’Italsider di Genova, delegato della Fiom, ammazzato sotto casa nel gennaio del 1979. La manifestazione unitaria che segue all’omicidio pone la parola fine a ogni residua velleità politica di tipo brigatista. Anche se non a uno stillicidio di omicidi che si prolungherà per tutto il decennio successivo.
In secondo luogo, gli anni ‘70 sono anni di difficoltà economiche. E lo sono non solo in Italia, ma su uno scenario più ampio. Nel 1973, la prima crisi petrolifera, seguita poi da quella del 1979, genererà gravi carenze nella disponibilità di materie prime energetiche; carenze seguite da un’impennata nei prezzi di tali materie. Il cosiddetto shock petrolifero, da un lato, pose quindi fine a un lungo ciclo di sviluppo economico mentre, dall’altro, mise in discussione le politiche economiche di indirizzo keynesiano che si erano sviluppate nel cosiddetto trentennio glorioso (1945-1975). In Italia le conseguenze delle crisi energetiche si manifestarono con una temibile inflazione a due cifre. Inflazione che rischiava, da un lato, di falcidiare le conquiste salariali e, dall’altro, di minare alla base le conquiste sociali ottenute con la strategia delle riforme.
In terzo luogo, gli anni ‘70 sono, in Italia, anni in cui il sistema politico comincia a mostrare segni di crisi. Basti pensare che per ben cinque volte consecutive – negli anni ‘72, ‘76, ‘79, ‘83 e ‘87 – si giunge a uno scioglimento anticipato delle Camere. Le legislature non riescono più a durare cinque anni ma solo quattro o anche meno. Come ha notato ancora il prof. Bertucelli, al sindacato continua a mancare quell’interlocutore politico di Governo che sarebbe necessario. Per non parlare del fatto che, intanto, i rapporti politici tra i due partiti cui guarda la maggioranza dei militanti della Cgil, e cioè Pci e Psi, tendono a peggiorare.
Infine, anche come conseguenza dei sommovimenti economici sopra ricordati, all’inizio degli anni ’80 si produce una reazione antisindacale che attraversa gran parte dell’Occidente. Nel 1981 il nuovo Presidente Usa, Ronald Reagan, sconfigge duramente la lotta dei controllori di volo, arrivando a licenziare più di 11.000 scioperanti. Mentre fra il 1984 e il 1985 Margaret Thatcher, capo del Governo britannico, sconfigge una durissima e prolungata lotta proclamata dal Num, il sindacato dei minatori. Ora il punto è che questa reazione prende avvio proprio in Italia, già nel 1980, con la lotta dei 35 giorni alla Fiat. Lotta che, di fronte all’offensiva della maggior azienda privata italiana, vede soccombere le tre grandi confederazioni sindacali.
Lunedì 31 maggio, poche ore prima che iniziasse il convegno di cui stiamo parlando, un osservatore attento delle vicende sindacali come Dario Di Vico ha così scritto su Twitter: “A 25 anni dalla scomparsa, manca ancora una vera riflessione su cosa ha rappresentato Lama per il sindacalismo italiano e su cosa avrebbe potuto rappresentare per una sinistra riformista”.
Un tweet che ci spinge a tornare ai nodi problematici cui abbiamo accennato all’inizio di questo articolo. Non prima di aver però azzardato una sintesi dei problemi che Lama dovette affrontare.
L’inflazione, oltre certi livelli, diventa un mostro che azzera gli aumenti del salario nominale, erode i redditi, rende difficoltosa l’attività contrattuale, crea insicurezza, tarpa le ali al welfare e blocca le leve della politica economica. L’instabilità politica rende poi arduo qualsiasi tentativo di impostare un’azione volta a riportare l’inflazione sotto controllo andando oltre alle ricette antipopolari, quali le strette creditizie e i conseguenti attacchi all’occupazione.
Ebbene, il destino ha riservato a Lama il compito di guidare la Cgil fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, ovvero in un periodo contrassegnato da questi due mali: alta inflazione e bassa stabilità politica. Solo all’inizio degli anni ‘90, con l’accordo tripartito del 23 luglio 1993, firmato da Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e Governo, in un momento in cui l’Esecutivo era guidato da Carlo Azeglio Ciampi, la somma di politica dei redditi e concertazione consentì di venire a capo del problema. Impostando una linea di politica economica volta a contenere l’inflazione, ridare slancio all’occupazione e consentire una crescita graduale al potere d’acquisto delle retribuzioni.
Fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, un accordo simile al Protocollo del 23 luglio non comparve neppure all’orizzonte. Nel contesto dato, Lama fu quindi fra i protagonisti di passaggi discussi e forse contraddittori, come l’accordo sul punto unico dell’indennità di contingenza del 1975 e la politica dei sacrifici (leggi contenimento salariale) prospettata all’assemblea sindacale dell’Eur nel 1978. Mentre, successivamente, subì prima la controffensiva antisindacale della Fiat (1980), e poi lo scontro fra il Psi di Craxi e il Pci di Berlinguer. Scontro che si scatenò fra il 1984 e il 1985 attorno alle questioni del taglio della scala mobile (voluto da Craxi in accordo con Carniti, passato dal ‘79 alla guida della Cisl) e del successivo referendum (voluto da Berlinguer in disaccordo con Lama).
E siamo ancora lì, all’assenza di un’utile sponda politica. Assenza che, quanto meno, deve aver amareggiato Lama. Che fu comunque un coraggioso combattente, un sindacalista tenace nelle trattative, e, allo stesso tempo, nemico di qualsiasi estremismo. Un leader dotato di un’attitudine pedagogica verso i dirigenti più giovani e meno esperti, e un uomo capace anche di sfidare le assemblee operaie. Sfidare nel senso che non cercava l’applauso, ma un consenso ottenuto nella chiarezza delle posizioni che a lui, di volta in volta, apparivano più giuste per l’insieme del movimento dei lavoratori.
In conclusione di questo primo convegno, Fulvio Fammoni, Presidente della Fondazione “Di Vittorio”, ha dato appuntamento a tutti per il 6 luglio, giorno in cui si terrà una seconda giornata di studi su Luciano Lama.
@Fernando_Liuzzi