La legge in discussione ha un elemento di confusione fondamentale: è sul capirci bene che cosa sia l’identità di genere, su cui il ddl si avventura posto che non solo non c’è ancora univocità scientifica costituzionalmente sulla definizione che assioma la parola identità genere in materia discriminatoria coniugandola con altre discriminazioni e violenze legate al sesso, all’orientamento sessuale, alla disabilità. Il DDL fa confusione sul concetto sesso con quello di genere contraddicendo l’articolo 3 della nostra cattedrale costituzionale per la quale ogni diritto è riconosciuto in base al sesso e non al genere termine sconosciuto dal diritto.
Se c’è da mettere mano a una legge è proprio sul Codice di Parità del 2006, libro IV pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti civili e politici libro ii pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti etico-sociali e successive integrazioni Legge 27 dicembre 2017, n. 205 che ancora contiene dei vulnus antidiscriminatori.
Questo disegno di legge, che doveva essere di contrasto alla omofobia, purtroppo si è trasformato in un manifesto ideologico, che fa confusione, mette in secondo piano l’omofobia e invece riduce pesantemente diritti e interessi delle donne e anche la libertà di espressione. La difesa di questo ddl – che comunque a parer di scrive e parla – va modificato, si basa sull’affermazione che è necessario uniformarsi all’Europa. Ma il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione n. 5 del 2010, ha invitato gli Stati membri ad «adottare misure adeguate per combattere qualsiasi forma di espressione, in particolare nei mass media e su internet, che possa essere ragionevolmente compresa come elemento suscettibile di fomentare, propagandare o promuovere l’odio o altre forme di discriminazione nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali», premurandosi però di avvertire che tali misure debbono «rispettare il diritto fondamentale alla libertà di espressione”, conformemente all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte.
Sebbene la repressione penale dell’omofobia, nelle sue molteplici configurazioni, accomuni diversi ordinamenti giuridici europei e non, ancora acceso è il dibattito sulla sua costituzionalità e, in particolare, sulla sua compatibilità con la libertà di espressione. La Corte di Strasburgo non pare essere ancora riuscita a delineare i confini entro i quali possono muoversi i legislatori nazionali, mentre spunti interessanti giungono dai giudici dell’Unione europea che, pronunciandosi sulla portata del divieto di discriminazione per orientamento sessuale, hanno suggerito soluzioni alternative per la repressione (civilistica) di alcune tipologie di esternazioni omofobe. Queste paiono particolarmente utili in considerazione della perdurante assenza, nell’ordinamento giuridico italiano, del reato di hate speech omofobico.
Vale la pena di ricordare che tutt’altro che agevole si sta però rivelando la scelta delle misure normative che il raggiungimento di tale obiettivo richiede di adottare: le esitazioni di alcuni legislatori statali, tra cui rientra senz’altro il Parlamento italiano, non sono solo da ascrivere a perplessità di natura politica riguardanti, ad esempio, l’utilità e l’opportunità di risposte penali alla domanda di protezione dalle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, oppure a tenaci resistenze dettate da tattiche partitiche o fanatismi di tipo ideologico-religioso , bensì, anche ai dubbi legittimi di costituzionalità che alcune misure normative possono sollevare: al riguardo, basti ricordare l’accidentato iter dei progetti di legge presentati la cui discussione si è interrotta in conseguenza dell’approvazione di diverse pregiudiziali di costituzionalità.
Ritengo legittimo sollevare dubbi di costituzionalità legati soprattutto alla compressione della libertà di pensiero che andrebbe a determinare , ma a suscitare le maggiori perplessità sul piano giuridico-costituzionale in relazione alla incompatibilità con i cataloghi di diritti nazionali e sovranazionali, quali la Convenzione europea dei diritti umani, è assai più frequentemente la repressione penale degli hate speeches, in ragione della loro supposta equiparabilità ai c.d. reati di opinione. La mia opinione è che se non emendato, il ddl Zan consuma una pericolosa sovrapposizione della parola ‘sesso’ con quella di ‘genere’ con conseguenze contrarie all’articolo 3 della Costituzione per cui i diritti vengono riconosciuti in base al sesso e non al genere e non in armonia con la normativa vigente, la legge 164/82, che «ammette e consente la transizione da un sesso a un altro sulla base non di una semplice auto-dichiarazione o di una individuale percezione di sé relativa al genere (come dichiara il ddl ).
La definizione di ‘identità di genere’ contenuta nel ddl Zan crea una forma di indeterminatezza che non è ammessa dal diritto, che invece ha il dovere di dare certezza alle relazioni giuridiche e di individuare le varie fattispecie. Inoltre sempre il ddl in oggetto con il suo articolo 3 introduce una clausola di salvaguardia dell’art. 21 della Costituzione. È singolare che una Proposta di legge, destinata – se approvata e promulgata – a diventare legge ordinaria, tuteli una norma costituzionale, la quale è sovraordinata a ogni legge ordinaria. La norma ordinaria deve essere conforme alla Costituzione. Non può proporsi la sua tutela. Siamo, evidentemente, in presenza di una «contraddizione tecnica», che la ratio dell’ordinamento liberal-costituzionale non dovrebbe tollerare. Tanto meno ammettere. Si assiste, così, al ribaltamento della gerarchia ordinamentale. Concludo ,per ora, affermando che sesso e orientamento sessuale secondo la proposta sarebbero la medesima cosa così come genere e identità di genere. Il suo linguaggio rivela un accoglimento del significato di sesso e di genere esclusivamente «culturale». È ignorato ogni riferimento biologico e antropologico.
Alessandra Servidori