La Corte europea dei diritti umani (“Corte” o “Corte EDU”) si è pronunciata contro l’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso come requisito obbligatorio in Romania per il riconoscimento del genere ed ha dichiarato che la necessarietà di tale intervento ai fini del riconoscimento viola i diritti delle persone trans. Il riconoscimento legale del genere (“RLG”) è quel processo attraverso il quale le persone trans possono chiedere di cambiare il loro nome ed il loro indicatore di genere nei registri amministrativi, nei registri ufficiali e nei loro documenti, come quello d’identità, i certificati di nascita o i certificati di stato civile.
Attualmente, in Europa non si è sviluppata una legislazione omogenea per ciò che concerne tale processo: le leggi nazionali degli Stati europei variano in larga misura ed i requisiti per accedervi possono comprendere da mere prassi burocratiche a pratiche mediche invasive, come la sterilizzazione. Vi sono inoltre Stati nei quali la procedura per ottenere il RLG non è stabilita esplicitamente dalla legge ed i casi vengono analizzati e valutati singolarmente dai giudici nazionali. Ad oggi, questo avviene in Bulgaria, Cipro, Italia, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. Tuttavia, se in Italia ed in Polonia la giurisprudenza ha chiarito quali siano le procedure ed i requisiti per il RLG, negli altri Stati in elenco si è concessa un’ampia discrezione al singolo giudice e ciò ha portato ad uno stato di incertezza legale. Hanno presentato ricorso dinnanzi alla Corte EDU. Secondo i ricorrenti, lo Stato rumeno avrebbe violato l’articolo 3 e l’articolo 8 della Convenzione perché la legislatura romena non stabilisce chiaramente quale debba essere la procedura di RLG da seguire.
L’operazione di riassegnazione del sesso come requisito necessario per il RLG si configurerebbe come un’interferenza statale nella vita privata delle persone trans senza basi legali, che non persegue uno scopo legittimo e che non è necessaria in una società democratica. I ricorrenti hanno sostenuto che doversi necessariamente sottoporre al trattamento chirurgico per ottenere il RLG costituirebbe discriminazione basata sull’identità di genere tra coloro che vivono l’incongruenza di genere e le persone, invece, cisgender. Di conseguenza, tale requisito costituirebbe altresì una violazione dell’articolo 14 della Convenzione EDU. Inoltre la necessarietà dell’operazione chirurgica sarebbe in contrasto con il diritto al matrimonio contenuto nell’articolo 12 della Convenzione, considerando che tali interventi provocano sterilità.
La Corte ha riconosciuto che le operazioni di riassegnazione del sesso hanno un notevole impatto sull’integrità fisica e che le corti nazionali romene non hanno né giustificato la necessarietà di tali operazioni, né hanno condotto una mise en balance tra gli interessi generali e quelli dei singoli cittadini che chiedono il RLG. A detta della Corte, che ha condannato questa situazione porrebbe le persone trans romene di fronte a un dilemma impossibile, un aut-aut esistenziale in cui le persone trans possono scegliere di sottoporsi ad un intervento chirurgico invasivo e rinunciare al loro diritto all’integrità fisica o, in alternativa, rinunciare a vedersi legalmente riconoscere la loro identità sessuale, il che ammonta, parimenti, ad una violazione del diritto alla vita privata. Inoltre, la Corte ha tenuto in considerazione che sempre meno Stati chiedono come requisito obbligatorio per il RLG l’operazione di riassegnazione del sesso: nel 2020 ventisei Stati membri del Consiglio d’Europa non esigevano più la chirurgia come requisito per il RLG. Per tali motivi, il requisito in oggetto costituisce un’interferenza statale non giustificata con il diritto alla vita privata come stabilito dall’articolo 8 della Convezione.
Alessandra Servidori