L’INAPP ha pubblicato un working paper dal titolo: “Dalla Fase 1 alla Fase 2: quale transizione per uomini e donne? Sintesi survey. Il lavoro di uomini e donne in tempo di Covid. Una prospettiva di genere”. Ha curato il WP Valentina Cardinali. L’indagine, somministrata online a un collettivo auto selezionato, ha affrontato, per numerosi aspetti, come uomini e donne hanno affrontato questa fase di passaggio rispetto ai temi della condizione lavorativa, organizzazione familiare, incidenza del care burden, effetti della situazione in ambito personale/familiare, valutazioni economiche, paure, priorità, prospettive. E’ innanzi tutto interessante osservare i comportamenti intervenuti nell’ambito della coppia con la fine del lockdown e la riapertura (sia pure con i limiti noti). A rientrare al lavoro fuori casa sono stati prima – e in misura maggiore – gli uomini, sia nel caso del lavoro dipendente che del lavoro autonomo/indipendente.
La motivazione principale per il rientro al lavoro fuori casa sia per uomini che per donne è legata innanzi tutto – il che è ovvio – al calendario di riaperture dei settori e delle attività produttive in cui sono occupati e, in seconda battuta, alle richieste specifiche del datore di lavoro o committente. Il fenomeno, quindi, riflette la composizione di genere dell’occupazione nei diversi settori economici; presenta pertanto motivazioni che prescindono dalle intenzioni e disponibilità dei soggetti, siano essi uomini o donne. Emergono tuttavia dall’indagine alcuni elementi che attengono alla sfera dei rapporti interni alla coppia e delle scelte individuali e familiari; elementi che – come rileva il WP – sono la spia di un rischio di rafforzamento delle criticità di genere nella partecipazione al mercato del lavoro e alla sfera produttiva. Viene infatti segnalato il caso dell’8% delle lavoratrici dipendenti e il 15% delle autonome/indipendenti che afferma che “l’ordine di rientro al lavoro è stato il risultato di un accordo col partner”: si tratta di donne prevalentemente con figli o carichi familiari, con reddito medio annuo dichiarato come “inferiore al partner”. Se invece, la tipologia lavorativa dei componenti la coppia consente di scaglionare i rientri al lavoro fuori casa, in presenza di carichi familiari, si realizza un ‘accordo’ in base al quale la donna rimanda il suo rientro al lavoro – uno stop che può essere temporaneo o vicino alla decisione di dimettersi definitivamente per esigenze familiari, cristallizzando la distinzione di genere tra lavoro di cura non retribuito e lavoro per il mercato. Conferma ulteriore – secondo il WP – viene fornita dal fatto che alle seguenti enunciazioni hanno risposto solo donne e non uomini, sia dipendenti che autonome/indipendenti: “Potevo rientrare al lavoro ma abbiamo valutato in famiglia che era più opportuno che io restassi ancora un po’ a casa” e “Il carico familiare richiede che una persona resti a casa: mi dimetto/lascio il lavoro”. Le motivazioni all’origine di tali affermazioni sono organizzative (“il mio orario di lavoro mi consente maggiore flessibilità del partner”), economiche (“il mio stipendio è più basso di quello del/della partner, se resto io a casa, la perdita economica è minore”) e culturali (“per la mia capacità/ruolo di gestione e cura familiare”). Le rispondenti dichiarano un reddito medio annuo tra i 10 e 30 mila euro, mentre nello specifico coloro che valutano le dimissioni e l‘abbandono del lavoro hanno un reddito tra i 10 e 20 mila euro.
Guardando al collettivo dei rispondenti in coppia e alla valutazione del proprio reddito in relazione a quello del/la partner, sia nel lavoro dipendente che autonomo/indipendente – scrive Valentina Cardinali – si evince un quadro in linea con il dato nazionale, secondo il quale il contributo al reddito familiare delle donne in una coppia dual earner non supera stabilmente il 40%. Le differenze maggiori tra uomini e donne sono ascrivibili al settore privato. Nel WP viene precisato che il modello di coppia dei rispondenti è quello ‘maggiormente tutelato’, in cui la forma contrattuale prevalente è il tempo indeterminato full time (TI-FT). Ove le donne sono occupate, anche se a tempo indeterminato, ma part time o in caso di maggiore debolezza contrattuale, il partner esercita una funzione di ‘protezione dal rischio’ essendo occupato a tempo indeterminato prevalentemente full time. Nonostante, tuttavia, questo modello di coppia prevalente, TI FT, le donne affermano comunque di percepire un reddito annuo ‘inferiore’ a quello del partner e questo avviene per tutte le fasce di reddito medio annuo. Al contrario, per gli uomini, il livello è sempre definito come ‘superiore’ in tutte le fasce di reddito medio annuo. La differenza reddituale può essere riconducibile solo in parte al monte ore lavorato, al settore di impiego (pubblico o privato) o alla posizione nella struttura gerarchico professionale – nonostante, tra i soggetti intervistati, la categoria apicale sia rappresentata in misura maggiore dalle donne, contrariamente allo scenario nazionale, mentre il livello di ‘quadri’ o ‘impiegati/operai’ è simile tra uomini e donne. In sintesi, si conferma nell’indagine il dato di differenze reddituali con connotazioni di genere solo in parte connesso alla partecipazione al mercato del lavoro e in altra parte spiegabile da fattori diversi da quelli produttivi. Nel caso in cui, invece, la coppia sia composta da un solo percettore di reddito, più diffuso è il modello donna lavoratrice, partner pensionato (e solo in misura minore disoccupato). Per gli uomini lavoratori invece, il modello più diffuso è la partner casalinga e solo in seconda battuta ‘pensionata’ o disoccupata. La condizione di non lavoro del partner anche in questo caso segue il modello consolidato di partecipazione di genere.
Siamo quindi di fronte a una situazione di partenza fortemente squilibrata a danno delle donne, che rende il costo opportunità della loro partecipazione al mercato del lavoro in presenza di carichi familiari piuttosto alto e ‘sacrificabile’ nell’ottica della tenuta del sistema familiare.
La componente reddituale, tuttavia, si intreccia – è opportuno osservarlo – con la dimensione culturale in una spirale già nota e consolidata. E’ particolarmente utile appare accostare le evidenze di questa indagine – sostiene il WP – a tre dati di contesto strutturali emersi in altre precedenti: a) il 51% degli italiani ritiene ‘naturale’ che sia la donna ad occuparsi della cura e della famiglia e che il ‘successo lavorativo’ sia una prerogativa maschile – contro ad esempio l’11% registrato in Svezia; b) a seguito della maternità una donna su sei esce dal mercato del lavoro; c) il fenomeno delle dimissioni volontarie delle donne con figli da 0 a 3 anni è in costante aumento negli ultimi anni, sino ad aver superato le 35mila unità nel solo 2019. L’aumento diventa particolarmente significativo a seguito dell’introduzione dal 2017 della possibilità per la donna, a seguito della ratifica delle citate dimissioni volontarie, di accedere alla Naspi, che paradossalmente viene a rappresentare la monetizzazione della rinuncia al lavoro della donna con figli piccoli e il sostegno economico necessario all’esercizio della funzione di cura in prima persona.
L’indagine conferma il permanere di una divisione dei ruoli che penalizza, nella vita di coppia, la donna. La domanda è: se l’uomo è uscito di casa appena gli è stato possibile, quando durante il lockdown era costretto a rimanere tra le mura domestiche quale è stato il suo contributo alla quotidianità della famiglia? Implacabile il WP segnala che durante il periodo di lockdown (Fase 1), nonostante la copresenza media in casa di uomini e donne, si è comunque riprodotta l’asimmetria di genere nei lavori di cura. Per il 53% delle donne rispondenti, in questo periodo, il carico di lavoro complessivo “è aumentato”, mentre per il 53% degli uomini “è rimasto sostanzialmente uguale”. La differenza è data dalla gestione della cura familiare, che non dovrebbe essere un’incombenza delle sole donne essendo il carico di assistenza comune ad entrambi. Secondo il WP il tema di quanto e come incide la presenza di un carico familiare nella transizione è uno dei fattori chiave per valutare gli effetti su uomini e donne del periodo che stiamo attraversando e risulta ben approfondito dalle interviste realizzate. Il 70% di uomini e donne (rispondenti all’indagine) con un rapporto di lavoro dipendente ha figli, l’8% ha familiari, anziani o bisognosi conviventi e circa il 20% non conviventi. Si denota una maggiore presenza di figli in età scolare primaria (6-10 anni) seguita dal ciclo 0-6. Nel caso del lavoro autonomo hanno figli il 65% di uomini e donne rispondenti e il 30% delle donne e il 45% di uomini ha anche familiari, anziani o bisognosi, prevalentemente non conviventi. Per le donne abbiamo conferma dell’esistenza della generazione sandwich: quella fascia di età tra i 35 e 54 anni (seguita dalla classe di età dei 45-54) in cui la simultaneità della gestione e cura di bambini e anziani o bisognosi di assistenza, proprio come in un panino, schiaccia la donna in un contesto di doppio lavoro con scarso supporto in termini di welfare locale e di assenza di condivisione da parte del partner, determinandone scelte e vincoli anche per quanto riguarda il lavoro.
Durante la Fase 1 di lockdown di copresenza di uomini e donne con figli in casa, la cura e gestione dei figli è, comunque, prevalentemente restata a carico delle donne Quasi il 50% delle donne (rispondenti) afferma di aver seguito i figli in maniera prevalente, e solo in seconda battuta (35%) in alternanza col partner. Scarso il contributo maschile prevalente (attestato sotto il 10% delle risposte). I rispondenti uomini che affermano di aver seguito la prole in via prevalente sono solo il 5%, mentre la “condivisione con la partner” è la prima opzione di risposta (55% dei rispondenti), seguita dall’opzione “li ha seguiti la mia partner” (35%).
È possibile, pertanto, affermare che la condivisione tra uomini e donne, anche in condizioni di contesto “obbligate” non abbia raggiunto effetti stabili. Le stesse strategie di conciliazione adottate in entrambe le fasi rilevano il perdurare di questo modello.
Nel suo discorso sulla fiducia, Mario Draghi “si è speso molto” su queste problematiche, quando ha affermato che: “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso – ha aggiunto – puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro”. In questa sfida però la prima linea passa all’interno della coppia e della famiglia. La donna può e deve essere aiutata nel condurre e vincere una battaglia per la parità effettiva di genere, senza perdere di vista il punto cruciale: il rapporto con il partner e i famigliari. I servizi sociali, i congedi, gli asili nido, le scuole materne, l’insegnamento a tempo pieno e tanti altri aiuti (che non ci sono a sufficienza, beninteso e che sono indispensabili) non possono essere predisposti per liberare le donne lavoratrici dalle fatiche casalinghe e gli uomini dalla loro cattiva coscienza. Per confermare cioè una divisione dei ruoli all’interno della coppia e in famiglia che è alla radice di tutte le altre discriminazioni.
Giuliano Cazzola