Nel sessantesimo anniversario della morte di Giuseppe Di Vittorio, un convegno organizzato il 3 novembre dalla Cgil lo ha ricordato nella sua Cerignola. Pubblichiamo integralmente l’intervento tenuto dallo storico Edmondo Montali.
Giuseppe Di Vittorio nasce a Cerignola nel 1892 e muore a Lecco nel 1957. Nasce nell’Italia liberale che sconta le fragilità del Risorgimento, in un Paese agricolo segnato da una questione sociale dirompente e da una questione territoriale irrisolta, con il Meridione costretto a pagare i costi di un’unità nazionale complessa. I lavoratori non sono titolari del diritto di voto, non partecipano alla vita pubblica, schiacciati tra analfabetismo e condizioni di vita al limite della sussistenza. Per lunghi anni, dopo l’Unità, non hanno alcuna rappresentanza politica; il Partito dei lavoratori (poi Partito socialista) nascerà proprio nel 1892, mentre i sindacati sono ancora legati alle logiche del mutualismo e della cooperazione.
Quando muore, l’Italia è invece diventata un Paese molto diverso: è una Repubblica democratica che ha fatto del lavoro il cuore del compromesso costituzionale. E’ un Paese dove i lavoratori hanno trovato pieno riconoscimento nella loro lotta di emancipazione, almeno a livello giuridico, e sono rappresentati da forti partiti di massa e da sindacati solidi e diffusi. Un Paese che si trova ormai alla vigilia del boom industriale e della nascita della società dei consumi.
Ebbene, Di Vittorio è stato un protagonista di questo lungo cammino, uno dei leader sindacali e politici che meglio hanno rappresentato il progresso civile del Paese, la sua ansia di libertà, giustizia, democrazia.
La sua biografia è nota: sindacalista rivoluzionario, deputato del Regno nel 1921, tra i principali dirigenti del Pci, direttore – nell’esilio parigino – del quotidiano La Voce degli Italiani, eletto all’Assemblea Costituente, deputato della Repubblica, segretario generale della Cgil, presidente della Federazione sindacale mondiale.
Di Vittorio fu un dirigente che lasciò, col suo impegno pubblico, un segno profondo e originale nella vicende politiche; e ciò in virtù di un pensiero che fu estremamente coerente. Pensiero secondo cui la dignità di un uomo e la sua libertà sono intimamente legate al suo lavoro e secondo cui il popolo dei lavoratori, come amava definirlo, nella sua lotta volta ad affermare i propri diritti (cosa che, come aveva appreso con l’esperienza, può avvenire soltanto sul terreno della democrazia politica), può pervenire a costituire il cuore, l’anima e la mente della vita politica nazionale: “Il lavoro salverà l’Italia”.
Se il tempo ci aiuta a collocare Di Vittorio nel contesto storico, lo spazio ci aiuta a cogliere i tratti della sua personalità. E il suo spazio, fisico e interiore, fu la Puglia che riemergerà sempre dal suo accento inconfondibile e che ne farà, citando Giorgio Amendola, “un figlio del bisogno e della lotta”.
La Cerignola del giovane Di Vittorio era dominata dalla “fame di terra”; i braccianti lavoravano per paghe miserevoli e vivevano in condizioni igieniche spaventose, condannati all’analfabetismo e agli stenti di un’esistenza brutale. L’unica logica di contrapposizione che sembrava possibile era la rivola, puntualmente repressa nel sangue. Lo Stato, bene che andasse, era assente; ma quando lo si vedeva aveva il volto della violenza repressiva. Non c’erano mediazioni possibili, il riformismo in questa parte di Italia era una parola vuota di senso; la politica, come il sindacato, era scontro di classe frontale e violento.
In quel contesto, Giuseppe Di Vittorio fu un autodidatta che non si arrese al suo destino di “cafone” e con tutte le forze cercò di aprire uno spiraglio nel muro di ignoranza da cui era circondato. Si definì un “evaso”. Una delle sue prime intuizioni fu che la cultura era premessa per l’emancipazione: la conoscenza era forza, dignità, partecipazione. E da autodidatta diventerà poi uno dei maggiori esponenti del Pci, un partito per lo più diretto da intellettuali.
L’impegno politico-sindacale in quella Cerignola nasceva quasi naturalmente tra le fila del sindacalismo rivoluzionario. Di Vittorio, instancabile organizzatore (di scuole serali, ambulatori sanitari, circoli giovanili, strutture sindacali), ne condivideva la carica sovversiva, la fiducia nell’azione delle masse, che chiamerà “la capacità creativa delle masse”, la tensione all’azione diretta lontana dalla retorica impotente e parolaia. Ma anche in questo con tratti personalissimi che ne fecero un sindacalista rivoluzionario sui generis: interventista nel 1915, nel 1921 – contro la scelta antiparlamentarista – fu eletto alla Camera dei deputati come indipendente nelle liste del Partito socialista. Pragmatico nelle soluzioni, poco convinto dalle concezioni esclusivamente eroiche e finalistiche della lotta, più contrattualista dei suoi compagni perché il sindacato era sempre conquista di qualcosa di concreto, attento agli equilibri politici. Ma soprattutto, inflessibilmente unitario: anche quando sarà protagonista della nascita dell’Usi, si batterà sempre nelle Camere del Lavoro della Puglia per non arrivare a scissioni e rompere il fronte comune dei lavoratori, unica garanzia di successo della lotta.
L’unità dei lavoratori è stata il cuore della sua azione politica. Declinata, di volta in volta, come unità antifascista, che contribuì come pochi a costruire in quel laboratorio politico che fu La Voce degli Italiani; come unità sindacale, dal Patto di Roma del 1944 ai faticosi rapporti successivi alle scissioni del 1948; e, infine, come unità da costruire quotidianamente tra le diverse esigenze di un mondo del lavoro sempre più composito e differenziato. Per Di Vittorio l’unità del sindacato, più dell’unità politica, attraverso il cemento di comuni interessi materiali dei lavoratori, poteva abbattere gli steccati ideologici e creare una vera unità popolare, di classe e nazionale. Da tutto ciò discendeva lo spazio di autonomia “naturale” del sindacato, nonché il suo carattere intrinseco di soggetto politico. Caratteristiche, queste, che aveva conosciuto precocemente nell’esperienza delle Leghe bracciantili pugliesi.
Se il sindacalismo rivoluzionario ha costituito l’ambito della sua formazione, il Partito comunista rappresentò quello della sua maturità. Una scelta, quella dell’adesione all’allora Pcd’I, compiuta nel 1924 soprattutto in virtù della riflessione sull’incapacità del movimento socialista e del sindacalismo di impedire l’ascesa al potere del fascismo. E poi in virtù dell’incontro con Gramsci, con la scoperta di un orizzonte teorico complesso, capace di spiegare i motivi profondi delle lotte meridionali e di soddisfare la sua innata sete di conoscenza. Non bisogna dimenticare, infatti, che nonostante l’importanza che il fattore sentimentale e umano ha avuto per una figura come quella di Di Vittorio, la sua capacità di giudizio e di valutazione è stata sempre ancorata a una salda cultura politica e non si è mai appiattita sulle sollecitazioni della base.
E una solida cultura politica aveva bisogno di una forte organizzazione. Se c’è stato un merito storico di Di Vittorio, più importante anche delle conquiste sindacali, è stato quello di incarnare il distacco del mondo contadino da un passato plurisecolare di estraneità dalla lotta politica organizzata. Di Vittorio – non solo lui naturalmente, ma lui più di altri – trasformò la violenza delle masse bracciantili meridionali in forza e la ribellione in rivendicazione. La sua contaminazione “originaria” con i lavoratori non fu mai spontaneismo: sapeva infiammare le masse, ma anche frenarne la violenza quando usciva da un orizzonte politico per diventare feroce ribellismo.
Di Vittorio è stato il simbolo di un mondo del lavoro meridionale che usciva dalla fase della contrapposizione frontale e dell’estraneità nei confronti dello Stato e si faceva lotta politica organizzata, emancipazione cosciente e, in ultimo, esso stesso Stato. Non è un caso che fu proprio lui a rompere quello schema per il quale all’emarginazione strutturale del Sud dal processo di modernizzazione capitalistico, corrispondeva un analogo processo di emarginazione politica dei dirigenti che stavano alla testa del proletariato agricolo meridionale. Lui, uomo del Sud, divenne il leader della più grande organizzazione di massa dell’Italia repubblicana il cui maggiore insediamento era nel Nord del Paese.
L’originalità che abbiamo visto dominare la figura di Di Vittorio si tradusse in un rapporto complesso con il suo partito, fatto di fedeltà e spirito critico, di omologazione e insofferenze reciproche. Questa difficile sintonia esploderà, nel 1956, con il famoso telegramma con il quale la Cgil condannerà l’intervento sovietico in Ungheria.
I fatti di Ungheria ci segnalano un altro tratto fondamentale per capire Di Vittorio: nessuna logica politica poteva giustificare per lui la violazione dei diritti dei lavoratori, la repressione violenta delle loro rivendicazioni. Nemmeno nei Paesi del socialismo reale. Citando Vittorio Foa: pur restando sempre all’interno della logica italiana della “doppia lealtà”, per Di Vittorio valeva soprattutto una “doppia appartenenza”: quella al partito della classe e quella alla classe. E nei momenti decisivi, prevaleva sempre la sua empatia con i lavoratori, con la “carne e il sangue” del mondo del lavoro.
La pagina più bella della sua vita politica furono i giorni dell’Assemblea costituente nei quali parteciperà alla nascita della nuova Italia democratica. In quella sede riuscirà, dopo averlo già fatto sul piano della rinascita sindacale con il Patto di Roma del 1944, a dare forma, attraverso un difficile compromesso con cattolici e socialisti, a un preciso modello di rappresentanza sociale interpretata come pilastro dello Stato democratico e strumento di partecipazione dei lavoratori alla determinazione degli indirizzi politici nazionali. Il sindacato che delineò nei 5 interventi che tenne alla III Sottocommissione era un sindacato indipendente dallo Stato, con adesione volontaria, che rifiutava ogni limitazione al diritto di sciopero e che faceva delle strutture orizzontali, Confederazione e Camere del Lavoro, i principali soggetti della contrattazione. La dimensione orizzontale era quella in cui credeva maggiormente proprio perché struttura unitaria per eccellenza.
Un elemento da sottolineare per capire la forza con la quale Di Vittorio legava i temi del lavoro e della nazione è il suo patriottismo. Sua la convinzione che ci fosse un’equazione assiomatica tra la nazione e i lavoratori: il lavoro era esso stesso l’Italia e i suoi interessi erano immediatamente un interesse generale. I termini socialismo e identità nazione in lui si ricomponevano in un particolare “socialismo tricolore” con una connotazione classista dove patria, unità dei lavoratori e difesa dei loro interessi formavano una originale unità.
Di Vittorio giudicherà quindi come uno dei compiti più importanti del sindacato del dopoguerra quello di portare a compimento il processo unitario risorgimentale rimarginando, attraverso la solidarietà tra lavoratori, la frattura Nord-Sud. La necessità di “fare gli italiani”, a suo tempo espressa da Massimo D’Azeglio, Di Vittorio la perseguiva attraverso lo strumento degli accordi interconfederali e dei contratti nazionali. Scherzando, amava dirsi il continuatore dell’opera di Garibaldi. Già, scherzando. Ma non troppo.
Nel dopoguerra, a partire dal 1948, nel clima di un radicale anticomunismo, le scelte politiche e la ristrutturazione capitalistica presenteranno un alto costo sociale in termini di repressione e discriminazione, nelle campagne e nelle fabbriche. Con la sinistra politica e sindacale sospinta verso l’isolamento, in un clima di grande tensione sociale, Di Vittorio avanzerà la proposta del Piano del lavoro. Piano che rappresentava la ricerca di un’identità sindacale autonoma oltre lo scontro diretto e l’isolamento. Piano che, ancora, costituiva lo strumento per unificare e governare l’ampio spettro delle lotte dei lavoratori che scuotevano la penisola da Nord a Sud, contenendole all’interno di un orizzonte progettuale che rimetteva il lavoro al centro della vita nazionale.
Al di là dei suoi limiti, il valore intrinseco del Piano del lavoro consisteva nel proporre non solo una nuova politica economica, ma anche un nuovo modello di gestione della stessa attraverso una politica triangolare e, in nuce, concertativa. La Cgil tentava di recuperare il ruolo che il dettato della Costituzione riconosceva alla rappresentanza sociale, cercando di ricomporre la sfasatura tra Costituzione formale e Costituzione materiale, che in quegli anni si stava divaricando, e suggerendo un modello di integrazione positiva dei lavoratori nella democrazia italiana. A una situazione di oggettiva difficoltà e difesa, Di Vittorio e la Cgil reagivano con una proposta che costringeva il Paese e le sue classi dirigenti a confrontarsi sul piano della legalità e dello spirito costituzionale.
Il punto di arrivo di un simile progetto politico non poteva che essere la proposta dello Statuto dei lavoratori che Di Vittorio avanzerà nel 1952 e che costituiva il logico e consequenziale “secondo tempo” del Piano del lavoro. Dopo aver proposto l’applicazione della Costituzione in termini di riconoscimento del ruolo dei sindacati, adesso si puntava al riconoscimento della Costituzione nei luoghi di lavoro che non potevano essere zone franche nelle quali i cittadini tornavano ad essere sudditi dell’autoritarismo padronale. Non solo. E’ da queste premesse che possiamo spiegare la progressiva centralità del tema dell’applicazione della Costituzione nell’azione della Cgil; tema che verrà formalizzato già nel 1960, quando questo obiettivo sarà inserito nello Statuto dell’organizzazione. Antifascismo, affermazione dei diritti dei lavoratori, Resistenza, Costituzione repubblicana, Piano del lavoro, Statuto dei lavoratori, sono legati in maniera inscindibile all’affermazione di una triade valoriale: democrazia, lavoro, diritti.
L’altra faccia della medaglia dell’impostazione che Di Vittorio imprimerà sulla Cgil nel dopoguerra emergerà a metà degli anni Cinquanta. Dopo la ferita dell’accordo separato del 1954 sul Conglobamento, le sconfitte alle elezioni di Commissione interna della Fiat, della Falk e della OM metteranno in luce il ritardo con il quale la Cgil stava leggendo i grandi processi di trasformazione industriale allora in corso. Mentre la Cisl di Giulio Pastore portava la sfida sul terreno dell’aziendalismo e del produttivismo (Consiglio generale di Ladispoli, 1953), Di Vittorio rispose con la famosa autocritica del 1955, con la quale sottolineò esplicitamente i limiti della linea politica e sindacale perseguita fino ad allora.
Si è spesso esagerato nel definire storica la portata di quell’autocritica come se improvvisamente Di Vittorio avesse aperto le porte su un modo fino ad allora sconosciuto. Non era così. La Cgil rifletteva da tempo sui problemi dell’industria e del “supersfruttamento”. Quello che sorprende davvero nell’autocritica di Di Vittorio del 1955 è la trasparenza, l’onestà di un uomo politico che si assumeva pubblicamente le sue responsabilità in virtù di un rapporto di fiducia con i lavoratori. Perché se i lavoratori, attraverso il voto, avevano sfiduciato un’organizzazione sindacale, la colpa era dell’organizzazione e non dell’incapacità dei lavoratori di saper cogliere la validità di una linea politica scelta da una classe dirigente aprioristicamente “illuminata”.
La morte di Di Vittorio, avvenuta a Lecco il 3 novembre del 1957, segna la fine di un’epoca perché quella che si apriva con il miracolo economico non poteva più essere la sua. Scrisse allora Bruno Trentin: “Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno”.
Le testimonianze di riconoscimento saranno innumerevoli anche con gesti insospettabili come quello del segretario della Cisnal Giuseppe Landi, che renderà omaggio al feretro anticipando il ben più famoso omaggio di Almirante a Berlinguer. Significativa quella del settimanale liberale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, che vergava questo epitaffio:
“E la sua vita – da bracciante a presidente della Federazione sindacale mondiale – è di quelle che possono diventare esemplari per la costruzione della tradizione civile di un paese.”
Edmondo Montali.