Ne erano stati licenziati oltre 1.600, alla vigilia di Natale 2016, per non aver accettato, come invece i colleghi di Napoli, di sottoscrivere un accordo sindacale che prevedeva tra l’altro la riduzione dello stipendio. Oggi, 155 di quei lavoratori romani ex dipendenti Almaviva hanno pero’ ottenuto dal tribunale del lavoro della Capitale una sentenza che condanna l’azienda a reintegrarli nel posto di lavoro, pagando tutte le mensilita’ arretrate dal giorno del licenziamento, con relativi contributi.
La sentenza, emessa dal giudice Umberto Buonassisi, della sezione Lavoro del Tribunale di Roma, e’ netta: nelle 35 pagine il magistrato definisce il licenziamento “ritorsivo” e parla di ‘’vera e propria rappresaglia’’ da parte di Almaviva nei confronti di coloro che avevano rifiutato l’intesa. Secondo il giudice, i motivi che l’azienda porta a supporto della propria decisione di licenziare “non sono assolutamente idonei a fornire la prova richiesta dalla legge”, ma “servono a nascondere i veri motivi della scelta: liberarsi del più costoso personale romano che non aveva accettato la riduzione delle sue spettanze per sostituirlo, almeno in parte, con personale meno costoso e più conveniente. Anche a non volerla ritenere “ritorsiva” –insistono i giudici- si tratta comunque “di una scelta obiettivamente illegittima”, attuata “solo per ragioni inerenti il costo del personale romano che in nessun modo potevano giustificarla”.
E ancora, la sentenza afferma che l’aver proceduto ai licenziamenti collettivi solo per la sede di Roma e non anche per quella di Napoli, cosa che, secondo l’azienda, sarebbe “imputabile” proprio al rifiuto delle RSU di Roma di sottoscrivere l’accordo sindacale raggiunto, “sembra rovesciare l’ordine degli addendi”: l’accordo infatti “ non può essere contrario ai principi costituzionali e a norme imperative, nè può individuare criteri che, pur se indirettamente, risultano discriminatori, perché indirizzano, nell’ambito di una procedura collettiva e oltretutto con proposte di contenimento del costo del lavoro che sono anche palesemente lesive dei diritti individuali dei destinatari, la scelta finale dei lavoratori da licenziare verso quelli di una determinata unità produttiva anziché di un’altra”.
Per il tribunale, “appare evidente che tale scelta, e quindi anche l’accordo del 22.12.2016 se si aderisce all’interpretazione dello stesso di Almaviva, si risolve in una vera e propria illegittima discriminazione: chi non accetta di vedersi abbattere la retribuzione (a parità di orario e di mansioni) e lo stesso tfr, in spregio dell’art. 2103 cod. civ, dell’art. 36 e di numerosi altri precetti costituzionali ancora vigenti, viene licenziato e chi accetta viene invece salvato”.
“Un messaggio davvero inquietante –sottolinea la sentenza- anche per il futuro e che si traduce comunque in una condotta illegittima perché attribuisce valore decisivo ai fini della scelta dei lavoratori da licenziare, pur se tramite lo schermo dell’accordo sindacale, ad un fattore (il maggiore costo del personale di una certa sede rispetto ad altre) che per legge è invece del tutto irrilevante a questo fine”.
Pertanto, il tribunale dichiara “l’illegittimità licenziamento intimato ai ricorrenti e, per l’effetto, lo annulla e condanna la società resistente a reintegrare gli stessi lavoratori nel posto di lavoro e a corrispondere loro, a titolo di risarcimento danni, una indennità pari a tutte le retribuzioni globali di fatto maturate dal di del licenziamento, sino all’effettiva reintegra, detratto l’eventuale aliunde perceptum, con il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali; oltre rivalutazione ed interessi sull’importo via via rivalutato fino al pagamento come per legge”.
Nunzia Penelope