A sei anni dal Primo Rapporto sul secondo welfare in Italia, martedì scorso a Torino e’ stata presentata la nuova edizione della ricerca, curata dal Centro Einaudi e da Percorsi di secondo welfare. Un lasso di tempo non lunghissimo, ma abbastanza ampio per poter trarre qualche conclusione sullo stato dell’arte del settore. Si tratta, tuttavia, di una analisi che deve fare i conti, come ha sottolineato Maurizio Ferrera, docente all’Università Statale di Milano e supervisione scientifico del Rapporto insieme a Franca Maino, con una mancanza di dati che limita stime quantitative e qualitative certe sull’universo contenuto all’interno dell’espressione “secondo welfare”.
Dal punto di vista delle risorse, il denaro che confluisce nel secondo welfare supera il 5% del PIL. E le cifre sono altrettanto cospicue se si guarda anche alla platea dei beneficiari, che tra bilateralità e mutualità integrativa e’ composta ormai da milioni di persone. Sul fronte del welfare contrattuale e aziendale, dopo il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici, le imprese potenzialmente interessate da programmi di welfare sono più di 200mila, con un bacino di potenziali utenti superiori a 1 milione mezzo di lavoratori, senza considera le altre aziende, di tutti i settori, che negli ultimi anni hanno già attivato misure che vanno in questa direzione.
Il primo elemento che dunque emerge da questo Terzo rapporto è la crescita consistente e continua dell’area del secondo welfare. Una crescita non più sporadica e frammentata, ma sempre più sistemica. Premesso che all’interno del contenitore del secondo welfare continuino a vivere esperienze e realtà diverse tra loro, ci sono, tuttavia, due elementi che legano questa diversità. Il primo è che nel secondo welfare vanno a confluire tutte quelle risorse non pubbliche, che hanno però come scopo il benessere e la tutela della persona. L’altro è che il secondo welfare non è più, per usare un’immagine del Primo Rapporto, un insieme di fiori sbocciati in modo sparso, ma sta assumendo, con forza, la veste di secondo pilastro all’interno del sistema sociale italiano, complementare al primo welfare. Questa crescente organicità è dovuta anche alle cornici normative e regolative, messe in opera dall’attore pubblico. Al livello comunitario, il nuovo Pilastro Europeo dei Diritti Sociali ha definito il perimetro e gli standard della protezione sociale che ogni paese membro deve garantire ai propri cittadini. Sul piano nazionale si possono citare le norme su welfare contrattale e aziendale e la riforma del Terzo Settore contenute nel Jobs Act.
Un percorso di crescita sorretto da diversi fattori, a partire dalle difficoltà crescenti del primo welfare. La crisi iniziata nel 2008 ha fatto emergere non poche crepe nella struttura del welfare state tradizionale, in precario equilibrio tra risorse sempre più esigue e l’insorgere di nuovi bisogni. E tuttavia, l’Italia, così come molti altri suoi partner del Vecchio Continente, hanno continuato a spendere nel welfare: le risorse che il nostro paese vi riversa 447 miliardi di euro, una cifra che costituisce il 54,1% della spesa pubblica e che equivale al 30% del PIL. La media europea del rapporto welfare/PIL è pari al 28,7%, solo Francia, Danimarca e Finlandia spendono più di noi.
Ma il nostro sistema è fortemente sbilanciato, con la maggior parte delle risorse rivolte alla previdenza alla sanità, oppure utilizza male le risorse che ha disposizione, lasciando scoperte molte altre aree di intervento, dal sostegno alla famiglie numerose ai servizi per l’autosufficienza, alla tutela delle fasce più deboli del mercato del lavoro. In assenza di risposte dal pubblico, si sono dunque attivati altri canali. Se pensiamo al welfare come a un diamante a quattro punte, con al centro la tutela della persona, e lo Stato, la famiglia, il mercato e le organizzazioni intermedie che costituiscono i quattro vertici, sono state proprie quest’ultime a incrementare il proprio raggio d’azione, per colmare quelle lacune create dal pubblico.
Nel contesto di una recessione economica, il primo welfare non ha saputo dare risposte adeguate ai profondi mutamenti che si stavano manifestando in seno alla società. Cambiamenti sia demografici che nelle strutture dei nuclei famigliari, dove l’insorgere, sempre più forte, di sacche di povertà e disagio sociale, il manifestarsi di nuovi bisogni legati all’evoluzione del mercato del lavoro e i fenomeni migratori, rappresentano un insieme di fattori verso i quali la risposta del welfare state giunge, se giunge, con troppa lentezza.
Se questa costituisce la cornice d’insieme, il secondo welfare, come detto, raggruppa al suo interno realtà e sensibilità molto diverse tra loro. Analizzando la realtà del welfare contrattuale e aziendale, le leggi di Stabilità 2016 e 2017 ha rappresentato un punto di svolta per quanto riguarda il campo normativo. Con la prima sono stati rivisti i benefici e le loro modalità di erogazione prevista dagli articoli 51 e 100 del Tuir. Con la finanziaria del 2017 il legislatore ha rafforzato il percorso intrapreso, ampliando sia i servizi previsti sia la platea dei beneficiari. Accanto al consolidamento giuridico c’è stato un rafforzamento anche degli attori coinvolti: imprese, sindacati e provider. Il welfare aziendale, all’interno delle dinamiche delle relazioni industriali, da strumento tipico della contrattazione difensiva per mitigare le rivendicazioni salariali, è divenuto un fattore di accrescimento del benessere dei lavoratori e un traino di innovazione e competitività.
I dati del Ministero del Lavoro sottolineano come, nel 2017, su quasi 13mila accordi aziendali territoriali, il 30% di questi ha contemplato la possibilità di trasformare il premio di produttività in welfare, con un incremento, rispetto allo scorso anno, del 70%. Un trend di crescita verificato anche dall’OCSEL, l’Osservatorio sulla Contrattazione di Secondo Livello della Cisl, che nel rapporto 2017 evidenzia come gli accordi di secondo livello che al loro interno contemplando misure di welfare siano passati dal 10% del 2013-14 al 20% del 2015-16. Le materie di welfare più contrattate vedono al primo posto, con il 70%, i servizi che l’azienda può mettere a disposizione della popolazione lavorativa tramite le convenzioni, seguite dalla possibilità di avere fondi integrativi, sia sanitari che previdenziali, al 42%, e da ultimo delle migliori disposizioni legislative, con il 27,2%. Tra i settori che fanno più contrattazione del welfare spiccano i metalmeccanici, con il 28%, seguiti dal comparto chimico (20%) e edilizio (15%).
Una crescita che però non nasconde ombre e perplessità da parte della associazioni di rappresentanza dei lavoratori. Fermo restando il diverso atteggiamento ideologico nei confronti del welfare aziendale da parte delle diverse sigle sindacali, permangono dei nodi oggettivi irrisolti, esposti da Roberto Benaglia, responsabile dell’OCSEL. Il primo riguarda il come poter generare più equità attraverso il welfare contrattuale. Il vero limite risiede nel fatto che sino a questo momento il welfare è stato una prerogativa di determinati settori, di aziende più grandi e ben strutturate (nonostante l’esponenziale incremento anche tra le Pmi), e di una fascia ristretta di lavoratori. Per allargare la platea di imprese e lavoratori, il welfare non può che essere contrattuale, ossia deve trovare la propria legittimazione all’interno della dialettica delle relazioni industriali, dove anche le associazioni di rappresentanza trovano dimora, e non unicamente nel rapporto azienda-lavoratore. Un welfare dunque contrattuale che sia anche territoriale, capace di federare un numero sempre più ampio di piccole e medie imprese, che singolarmente non avrebbero le forze per fare massa critica.
Il welfare aziendale dovrebbe poi essere pensato come un diritto ancorato al lavoratore, indipendentemente dall’impresa o il settore di appartenenza. Se non si assume questa impostazione, sottolinea Benaglia, c’è il rischio che si vengano a creare delle torri di avorio, dove determinate fasce di lavoratori di alcuni comparti specifici godono di ampi diritti e tutele, mentre il resto della forza lavoro ne è escluso. Occorre anche abbandonare la logica che vede il welfare aziendale come una prerogativa esclusiva del lavoratore a tempo indeterminato. Con la precarizzazione delle carriere e la diffusione di forme contrattuali sempre più atipiche, la vera sfida sarà proprio quella di tutelare quei lavoratori più soggetti ai nuovi rischi, e che meno di altri potranno contare sulla tutela del primo welfare.
Resta infine da capire che tipo di welfare si svilupperà nel prossimo futuro. I provider hanno acquisito un ruolo crescente, grazie ai recenti interventi normativi e ad una cultura introno al welfare aziendale sempre più diffusa. Questo impone al sindacato una riflessione sul fatto se l’offerta dei provider vada realmente ad incontrare i bisogni dei lavoratori. Occorre forse distinguere, ha sottolineato Benaglia, tra un welfare di consumo, orientato maggiormente verso il wellness, e un welfare che invece intercetta le necessità più urgenti dei lavoratori, che può comprendere servizi di cura e assistenza, aiuto nella non autosufficienza.
Parlando di secondo welfare il pensiero non può non andare alla sanità e alla previdenza complementare. Il progressivo trasferimento della tutela dei rischi dallo Stato ai singoli individui, ha fatto crescere il ruolo delle assicurazioni, ormai soggetti di punta del secondo pilastro del welfare. Fonti Istat certificano come, per il 2016, la spesa sanitaria abbia quasi raggiunto i 150 miliardi di euro. Il 75% di questi (112,2 mld) a carico del pubblico, il restante 25% (37,3 mld) a carico dei cittadini che si rivolgono al privato, con una spesa che incide per il 2,2% del PIL. Nonostante il progressivo dinamismo delle assicurazioni, sia come attori del mercato sia come erogatrici dei servizi, il 90% della spesa sanitaria privata è out of pocket, ossia non intermediata dalle assicurazioni.
Sul versante delle previdenza, il passaggio al modello contributivo e le dinamica demografica hanno dato una spinta significativa alle pensioni integrative. Questo anche a fronte del fatto la disponibilità di un lavoro e di un reddito, uniti a un basso livello di salari, sempre meno garantiscono la possibilità di accedere ad una pensione pubblica decorosa, che deve trovare delle integrazioni quelle complementari. Secondo i dati del Pension Outlook dell’OCSE, nel 2016 gli iscritti ai fondi pensione hanno sfiorato gli 8 milioni, con un incremento del 7,7% rispetto al 2015, per un valore di 60 miliardi di euro. Tuttavia le adesioni sono limitate rispetto al bacino potenziale dei lavoratori occupati, con un tasso di copertura complessivo attorno al 25%. Si denotano inoltre profonde disparità territoriali (al Nord i tassi di adesione sono oltre il 30%, al Sud sono fermi al 21%), tra i lavoratori dipendenti privati (oltre 30%), autonomi (21,3%) e del settore pubblico (solo 194.000 adesioni su 7,2 milioni di iscritti complessivi), nonché nelle grandi imprese (tassi di adesione superiori all’80%) rispetto alle piccole aziende (tassi inferiori al 10%).
Permangono tuttavia delle criticità, soprattutto sul versante della sanità integrativa. Un suo progressivo sviluppo potrebbe infatti rappresentare una crescente erosione del SSN, rendendolo sempre più residuale, minacciandone dunque l’universalismo e la qualità delle prestazioni. Sul versante del welfare aziendale, la sanità complementare potrebbe rappresentare un qualcosa di fruibile solo dai lavoratori dipendenti più ricchi, scaricando al contempo i costi sulle fasce delle popolazione lavorativa più debole, che non ne trarrebbe alcun tipo di beneficio.
Il secondo welfare rappresenta comunque un pilastro sempre più solido all’interno del sistema di protezione italiano. Questo lo dimostra non solo il ruolo degli enti bilaterali, ma anche di tutte quelle realtà impegnate nello sviluppo di una filantropia sempre più “scientifica”. Naturalmente, accanto agli aspetti virtuosi, il secondo welfare non ha ancora perso la sua natura di “Giano Bifronte”, dovuta al fatto che il nesting, cioe’ l’incastro con il primo welfare, sia foriero non di benefici ma di effetti distorsivi. Come aveva sottolineato William Beveridge, il profit motive, la logica del profitto è un ottima servitrice ma non deve diventare padrona. La critica più forte lanciata al secondo welfare e agli attori che in esso operano è che la logica del profitto prevalga sulla tutela delle persone. Al contempo, non si deve cadere nell’errore di considerare lo Stato, e quindi il pubblico, come uno spazio incontaminato ed esente da logiche distorsive, nel quale gli interessi della collettiva emergeranno sempre e comunque.
Tommaso Nutarelli