La ripresa economica, seppure debole e inferiore alla media europea, segna la fine di un periodo di sofferenza. Restano le cicatrici della lunga depressione: il paese è impoverito dal punto di vista economico, ma è soprattutto immiserito dal punto di vista del capitale umano e culturale.
L’impoverimento in capitale economico a disposizione delle famiglie è ormai un dato ripetutamente certificato. Ultimo arrivato il 51° rapporto del Censis che fissa in oltre 1,6 milioni di famiglie (dato aggiornato al 2016) quelle in condizioni di povertà assoluta, con un boom del +96,7% rispetto al periodo pre-crisi.
Gli individui in povertà assoluta sono 4,7 milioni, con un incremento del 165% rispetto al 2007. Dinamiche incrementali che non risparmiano nessuna area geografica e che si concentrano, come al solito al Centro (+126%) e al Sud (+100%). Il boom della povertà assoluta rinvia a una molteplicità di ragioni, ma in primo luogo alle difficoltà occupazionali, visto che tra le persone in cerca di lavoro coloro che sono in povertà assoluta sono pari al 23,2%.
Cambia anche la composizione demografica del paese, come attestato dall’Istat nel suo ultimo Report “Sessant’anni di Europa” L’’Italia, che negli “anni Cinquanta era tra i paesi europei più giovani, rispetto agli altri è oggi invecchiata di più e più rapidamente”
Ed infatti “Se nel 1957 la metà della popolazione italiana aveva meno di 31 anni ora ne ha più di 45. In sessanta anni, dunque, il baricentro della popolazione italiana si è spostato di oltre 15 anni”.
Lo stesso fenomeno si registra per gli altri ma con un’intensità “minore”: lo spostamento è stato in media “di 11 anni»: da “33 a 44 anni nei 6 Paesi fondatori e da 32 a 43 nel complesso dell’Ue”.
Crolla inoltre il tasso di natalità: nel 2016 le nascite sono stimate in 474mila unità, circa 12mila in meno rispetto all’anno precedente. La riduzione osservata, che a livello nazionale è pari al 2,4%, interessa tutto il territorio, con l’eccezione della Provincia di Bolzano.
Il numero medio di figli per donna, in calo per il sesto anno consecutivo, si assesta a 1,34 e interessa sia le donne italiane che le straniere residenti nel paese. Cala la popolazione nel suo complesso ed infatti si stima che al primo gennaio 2017 la popolazione ammonti a 60 milioni 579 mila residenti, Con un calo di 86 mila unità in meno sull’anno precedente (-1,4 per mille).
Si immiserisce infine il capitale culturale: in un solo anno oltre 23 mila giovani hanno lasciato l’Italia per giocare le loro carte nel mercato globale. Li chiamano cervelli in fuga, ma spesso sono soltanto dei giovani laureati — o diplomati — in cerca di uno sbocco professionale.
Un fenomeno in continua crescita. Partono verso il Regno Unito, la Germania, la Francia, la Svizzera con un dato allarmante non solo dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo. Se si considerano, infatti, i cittadini italiani emigrati con più di 25 anni, si evidenzia che il 31 per cento di questi ha la laurea in piu rispetto alla media di laureati in Italia.
Una media restata inchiodata da anni al 14,8 per cento. E questa diaspora è un fenomeno che aumenta proprio mentre gli spostamenti all’interno del nostro Paese sono in diminuzione costante.
Così commenta Antonio Schizzerotto, professore di sociologia a Trento “Nelle precedenti emigrazioni chi partiva erano gli scarsamente acculturati e preparati che non trovavano più lavoro in Italia, ora parte la meglio gioventù, un capitale umano molto elevato. Si tratta di un impoverimento del nostro Paese che esporta medici e ingegneri e importa badanti”.
La sofferenza del sistema Italia è dunque evidente. C’è tuttavia un ulteriore aspetto, finora trascurato, e oggi emergente in tutta evidenza
Il paese si sta incattivendo. Qualcuno, non ha torto, sente un nauseabondo odore di anni ’30. Il detto “Italiani brave gente” sembra trasformarsi nel suo contrario e i cittadini del bel paese si riscoprono razzisti, violenti con i deboli, drammaticamente indifferenti alle immani tragedie degli emigranti e nostalgici del passato.
Quel che colpisce in questa barbarie è la regressione culturale di un intero popolo, e in modo particolare delle sue fasce giovanili. Certo, la tela è stata tessuta con abilità: la televisione, il mercimonio del calcio, il malcostume onnipresente, le scelte dissennate della politica, l’abbandono da parte della sinistra dei luoghi di sofferenza, in primis le periferie degradate delle grandi metropoli.
Fattori disparati che, come tessere di un puzzle, hanno fatto emergere dal rancore crescente un nuovo paradigma.
Una visione del mondo pre-politica, immemore della storia recente e delle sue tragedie, in cui la nozione di patria, di popolo è ritornata dicibile, sostituendo quella di proletariato e internazionalismo che hanno accompagnato, per una intera vita, la precedente generazione.
Una nuova frattura generazionale in cui i millenials non hanno seguito le orme dei padri indifferenti alla loro rivoluzione culturale per la liberazione degli individui dall’autoritarismo e del proletariato dallo sfruttamento e dalla miseria.
Il paese vive una sorta di glaciazione dei sentimenti e delle idee in cui i termini di fratellanza, impegno sociale, prendersi cura non vengono più declinati o, se lo sono, valgono solo per gli italiani.
Il mondo è diventato , d’improvviso, più piccolo. Crescono gli steccati e si chiudono le frontiere. Gli stati si arroccano in difesa condannando i giovani al provincialismo o all’esilio.
La dimensione glocale si è rapidamente trasformata in locale. Un fenomeno universale e crescente in Europa e in Italia. Prendere atto di quanto sia cambiato il nostro paese è forse l’unico modo per ripartire.