Nel gennaio del 1958 Mao Zedong, nella sua doppia carica di presidente del Partito Comunista cinese e di Presidente della Repubblica popolare cinese, lanciò la politica del cosiddetto “Grande balzo in avanti”, volta a spingere insieme lo sviluppo dell’agricoltura e quello dell’industria.
Come è noto, il Grande balzo in avanti, nome altisonante di quello che avrebbe dovuto essere il secondo Piano quinquennale cinese (1958-1963), si risolse in un totale disastro economico, culminato nella gravissima carestia che colpì la Cina fra il 1959 e il 1962, provocando milioni di morti. E se lo citiamo qui non è per rievocare una tragica pagina di storia, quanto per prendere nota del fatto che l’obiettivo più emblematico indicato dall piano era quello che la produzione cinese di acciaio raggiungesse, in 15 anni, quella del solo Regno Unito.
Avete capito bene. Nel 1958, Mao Zedong indicava alla Cina comunista, come un obiettivo molto ambizioso, quello di arrivare nell’arco di 15 anni, e quindi entro il 1973, ad avere una produzione di acciaio pari a quella della Gran Bretagna. Un dato che ci consente di renderci conto, a colpo d’occhio, di quanto sia cambiato il mondo negli ultimi sessant’anni. Il mondo dell’acciaio, vogliamo dire, ma anche il mondo dell’economia e, quindi, le relazioni economiche fra le grandi aree geopolitiche del Pianeta.
In Cina esiste ancora il dominio di un partito politico che si autodefinisce comunista, ma il comunismo esiste solo di nome. In realtà, il potere politico ha scelto da tempo di costruire una sorta di capitalismo senza libertà, in cui i protagonisti della vita economica sono grandi imprese dotate anche di significative proiezioni internazionali. Ebbene, nel 2016, con oltre 800 milioni di tonnellate, la Cina ha sfornato il 49,6% della produzione mondiale di acciaio, pari a 1.630 milioni di tonnellate. La Cina di oggi, insomma, risulta classificata, di gran lunga, al primo posto fra i paesi produttori di acciaio. Al secondo posto, molto distanziato, il Giappone, con 104,8 milioni di tonnellate, seguito dall’India che è salita a 95, 6 milioni di tonnellate.
Dopo i tre colossi asiatici, è solo al quarto posto che incontriamo gli Stati Uniti, con 78,6 milioni di tonnellate, mentre al quinto posto c’è la Russia (70,8 milioni) seguita a ruota, al sesto posto, dalla Corea del Sud (68,6 milioni). Per trovare una nazione europea, dobbiamo dunque scendere al settimo posto di questa classifica: è qui, infatti, che si piazza la Germania che però, con 42,1 milioni di tonnellate, è distanziata in modo significativo dalla Corea del Sud. All’ottavo posto, con 33,2 milioni di tonnellate, c’è poi la Turchia che scavalca il Brasile (nono con 30,2 milioni). Infine, al decimo posto c’è l’Ucraina, new entry in questa top ten siderurgica, con 24,2 milioni di tonnellate. E l’Italia? Con 23 milioni di tonnellate, l’Italia è uscita dalla top ten, piazzandosi all’11° posto. Una discesa nella classifica che dipende, in larga misura, dalla crisi dell’Ilva
Per quanto riguarda poi le grandi aree geopolitiche, dopo la Cina si piazza il resto dell’Asia (Giappone compreso) col 19,1% della produzione mondiale. Solo terzo, e distanziato di parecchio, col 10,2%, l’insieme dei 28 paesi dell’Unione Europea. Al quarto posto, con un risicato 6,8%, i paesi del Nord America aderenti alla Nafta (Stati Uniti compresi, quindi).
Per quanto riguarda poi i dati relativi al consumo di acciaio, sempre nel 2016 tale consumo è stato pari a circa 1.515 milioni di tonnellate, inferiore quindi alla produzione. D’altra parte, diversi analisti sono concordi nel ritenere che, anche a fronte della ripresa economica globale, nel mondo vi sia comunque una sovracapacità produttiva. Sovracapacità che è relativa sia all’insieme dei paesi produttori rispetto ai consumi globali attesi, sia alla sola Cina, rispetto ai possibili consumi interni del colosso asiatico. E qui c’è la nota dolente relativa ai rapporti fra Cina e Unione europea.
“In seguito al rallentamento della domanda interna di acciaio dovuto alla riduzione del tasso di crescita nazionale – è scritto in un documento Fiom-Cgil dell’ottobre scorso – la crescita delle esportazioni cinesi è passata dai 20 milioni di tonnellate del 2010 ai 100 del 2014.” Per “favorire” tali esportazioni, è scritto ancora nel documento Fiom, “la Cina applica pratiche anti-concorrenziali più volte denunciate anche dall’Unione europea”. Infatti, “Pechino ha deciso di sostenerle con aiuti di Stato e dazi all’importazione che impediscono alle imprese di altri Paesi di essere competitivi sul mercato mondiale”. E poiché le imprese siderurgiche cinesi, in ultima analisi, sono “controllate dallo Stato”, per esse “non conta il rosso del bilancio: contano solo le scelte di politica industriale”. Ne segue che “le esportazioni cinesi a basso prezzo creano e creeranno grandi problemi a tutta la siderurgia mondiale, perché riducono i prezzi a livelli difficili, o addirittura impossibili, da sostenere da parte di aziende private”.
Infine, due parole sui grandi player. Dei primi dieci produttori a livello mondiale, sei sono cinesi, due giapponesi, uno coreano e uno, ArcelorMittal, euro-indiano. Quest’ultimo, peraltro, è il più grande gruppo siderurgico del mondo. “La quota produttiva di questi dieci gruppi – è scritto ancora nel documento Fiom – è pari a circa il 25%” della produzione mondiale di acciaio”.
Fuori da questa top ten, altri due grandi player indiani: Tata Steel, attualmente in trattative con la tedesca ThyssenKrupp, e Jindal Steel and Power che, insieme all’italiana Arvedi e a Cdp, aveva presentato recentemente una proposta di acquisto del gruppo Ilva; proposta cui è stata preferita quella avanzata da ArcelorMittal.
F. L.