A fine novembre, si è tenuta a Roma l’Assemblea nazionale dei lavoratori della siderurgia organizzata dalla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici Cgil. Un’occasione molto tempestiva per fare il punto su un settore, quello dell’acciaio, che vive oggi, a livello globale, una fase molto intensa di ristrutturazione. Innovazioni tecnologiche, istanze ambientaliste, processi di concentrazione, ridislocazioni geopolitiche: ecco alcuni dei fattori principali che fanno sì che vecchie classifiche siano state sconvolte e vecchie certezze siano entrate in crisi in un settore industriale che un tempo veniva considerato maturo, ed è oggi teatro di repentini mutamenti.
Il Diario del lavoro ne ha parlato con Rosario Rappa, il segretario nazionale Fiom – responsabile della siderurgia – che nell’assemblea del 29 novembre ha tenuto la relazione introduttiva.
Nella precedente assemblea nazionale Fiom dei lavoratori dell’acciaio, quella del dicembre 2015, venne fuori il tema della concorrenza sleale fatta dai produttori cinesi nei confronti dei produttori europei. Sleale nel senso che la Cina, da un lato, ha chiesto che il suo sistema economico sia riconosciuto come economia di mercato; il che, in base alle regole del Wto, consentirebbe ai suoi prodotti di essere esportati senza incontrare barriere doganali al loro ingresso nei paesi importatori. Mentre, dall’altro lato, mantiene al proprio interno condizioni quali l’assenza di sindacati liberi, o un’antica carenza di norme ambientali, che consentono alle grandi imprese cinesi di produrre con costi non solo inferiori a quelli che gravano sulle imprese occidentali, ma addirittura irraggiungibili per queste ultime. E, oltre a ciò, protegge le proprie grandi imprese con barriere doganali all’importazione. A che punto siamo rispetto a questa questione?
“All’interno dei sindacati internazionali dell’industria manifatturiera cui noi facciamo riferimento, IndustriAll Europe e IndustriAll Global Union, c’è stata una discussione anche piuttosto articolata sui dazi relativi ai prodotti cinesi. Il nostro rappresentante nell’Esecutivo di IndustriAll, che fino a qualche mese fa era Maurizio Landini, si è schierato a favore dei dazi a protezione del modo di lavorare che abbiamo in Europa.”
“Dal 2008, anno di inizio della recessione mondiale, non c’è stata un riduzione della produzione d’acciaio a livello globale. Infatti, mentre in Europa si assisteva a una riduzione dei volumi, in Cina e in India questi volumi continuavano a crescere. In particolare, la Cina è passata da circa un terzo alla metà della produzione mondiale di acciaio. Ormai si attesta su una produzione annua di circa 800 milioni di tonnellate rispetto ai 1.600 milioni di tonnellate prodotte nel mondo nel 2016. E ciò mentre in Europa, invece, la produzione diminuiva. Certi discorsi che sono stati fatti sulla sovracapacità produttiva installata in Europa andrebbero quindi inseriti in questo contesto mondiale per poter capire se sono validi o meno.”
Per parlare del dibattito interno al mondo sindacale sulla questione dei dazi protettivi nei confronti delle esportazioni cinesi hai usato il termine “articolato”. Cosa intendevi dire?
“Il sindacato tedesco dei metalmeccanici, IG Metall, non era d’accordo sulla necessità di avere in Europa dei dazi sulle importazioni di prodotti siderurgici cinesi. Per capire il perché di questa posizione, bisogna avere presente la complessità dei rapporti commerciali esistenti fra Cina e Germania. Rapporti che implicano una certa reciprocità di convenienze e interessi. Da un lato, la Cina si propone come esportatore di acciaio verso l’Europa. Dall’altro, la più grande azienda automobilistica tedesca, la Volkswagen, ha forti interessi in Cina.”
“Comunque, il dibattito è andato avanti superando certe perplessità iniziali. Si è così arrivati alla manifestazione che, nel 2016, è stata realizzata congiuntamente a Bruxelles da IndustriAll Europa, il sindacato dell’industria manifatturiera che comprende anche il settore metalmeccanico, e da Eurofer, l’organizzazione delle imprese siderurgiche europee. Scopo dell’iniziativa, sostenere, di fronte alle sedi delle Istituzioni dell’Unione Europea, la necessità dell’esistenza di dazi volti a ridurre l’impatto della concorrenza cinese. Ed è anche grazie a questa battaglia che, in Europa, si è verificata ultimamente un’inversione rispetto alla precedente situazione. Siamo ormai di fronte a una doppia crescita: della produzione, ma anche dei prezzi. Insomma, produrre acciaio nei paesi dell’Unione europea torna ad essere un’operazione conveniente.”
Bene. Vorrei però capire in quale scenario globale si inserisce questa attuale situazione europea.
“Nel settembre di quest’anno, a Parigi, si è svolta una riunione di IndustriAll Global Union dedicata ai problemi della siderurgia. A livello analitico, è stata confermata, in primo luogo, la tendenza a una crescita della produzione mondiale di acciaio. Tendenza che si svilupperà nel corso del 2018 e, con ogni probabilità, anche in seguito.”
“C’è poi una seconda tendenza che si va affermando e che è relativa non alla quantità della produzione mondiale, ma alla sua qualità o, per meglio dire, ad alcune caratteristiche specifiche del prodotto acciaio.”
A cosa ti riferisci?
“Mi riferisco alla tendenza a ridurre il peso specifico dell’acciaio per mezzo di leghe innovative. Sostanzialmente, potremmo parlare di una nuova generazione di acciai speciali. Si punta a realizzare acciai più sottili, e quindi meno pesanti, ma anche, allo stesso tempo, più resistenti. Il che è particolarmente importante, tanto per fare un esempio, per gli impieghi dell’acciaio nel settore dell’aerospazio, ma non solo. Lo scopo è quello di avere a disposizione leghe d’acciaio che consentano di realizzare mezzi di trasporto più leggeri e quindi mezzi che, a loro volta, necessitino di un minor dispendio energetico per il loro funzionamento.”
Insomma, un acciaio maggiormente ecocompatibile?
“Certo. Si può anzi dire che l’acciaio sia il materiale ecocompatibile per eccellenza. Ciò da due punti di vista. In primo luogo, perché è forse l’unico materiale, o comunque fra i pochissimi, ad essere riciclabile al 100% al termine del percorso di vita dei prodotti che con esso sono stati realizzati. In secondo luogo, perché oggi, grazie all’innovazione tecnologica, anche gli scarti che vengono generati nel corso dell’attività produttiva sono riutilizzabili. Occorre sapere, infatti, che nella produzione dell’acciaio – partendo da componenti quali il ferro e il carbone, utilizzati negli impianti a ciclo integrale – solo il 50% della somma dei componenti si traduce in prodotto finito, mentre il restante 50% si traduce in rifiuti. Si comprenderà quindi quanto sia rilevante il fatto che tali rifiuti non vadano ad aggiungersi agli scarti inquinanti ma possano, anzi, essere riutilizzati a fini produttivi. In sostanza, sia rispetto alle caratteristiche del prodotto che a quelle del processo di produzione cresce l’ecocompatibilità dell’acciaio. E oggi, anche in base a queste caratteristiche, si può ritenere che l’acciaio sia un prodotto valido e capace di reggere almeno per altri 50 anni.”
Dunque, mi par di capire, per parlare di acciaio oggi non basta avere davanti a sé uno scenario globale, ma anche un’ampia dimensione temporale.
“Certamente. La nostra discussione si è sforzata di partire da questi elementi di fondo, inserendo il presente e il futuro prossimo dell’acciaio in una prospettiva storica. Una prospettiva che, in qualche modo, riattualizza il Piano Sinigaglia, quello varato dal Governo italiano nel 1948. Ciò perché, oggi come allora, si tratta di sapere, innanzitutto, quale sia il posto del nostro Paese nel mondo, e poi di agire di conseguenza.”
“Allora, dopo la Seconda guerra mondiale, il Piano Sinigaglia si propose di dare al nostro paese un’industria siderurgica basata su una serie di stabilimenti pubblici a ciclo integrale, posti lungo le nostre coste. Ciò a partire da quello di Cornigliano, sito alla periferia di Genova. Una scelta grazie alla quale l’Italia si trasformò da paese prevalentemente agricolo in un paese industriale, fino ad avere un’industria manifatturiera che, da anni, è la seconda in Europa, subito dopo la Germania che era ed è rimasta tutt’ora prima.”
“L’acciaio è la base dell’industria manifatturiera. E ciò sia perché d’acciaio sono fatti, in maggiore o minor parte, prodotti quali i beni di consumo durevoli, dall’auto agli elettrodomestici, sia, ancor più, perché d’acciaio sono fatti i beni strumentali, ovvero quei macchinari e quegli impianti che servono a produrre non solo i beni di consumo ma anche altri macchinari. Per non parlare del ruolo del tondino d’acciaio, indispensabile componente del cemento armato per le costruzioni, nonché di altri fondamentali beni infrastrutturali, quali i binari ferroviari e le tubature usate per trasportare petrolio, gas e acqua. Tornare a ragionare sull’acciaio significa dunque ragionare sul ruolo che l’Italia, intesa come paese industriale, potrà o non potrà avere nei nuovi scenari globali.”
E quale è, oggi, tale ruolo?
“Attualmente, anche per ciò che riguarda la produzione di acciaio, la Germania è il paese leader in Europa, con circa 40 milioni di tonnellate di produzione annua. L’Italia, con 23 milioni di tonnellate, si piazza al secondo posto in Europa e all’undicesimo nel mondo. Ma vorrei sottolineare che il nostro Paese rappresenta anche il secondo mercato europeo per consumo dei prodotti siderurgici. Prodotti che, a loro volta, vengono impiegati per fabbricare, auto, camion, aeromobili, navi, macchine utensili, impianti industriali, telai, oltre, naturalmente, al famoso tondino.”
“Qualche altro dato: del settore siderurgico, in Italia, fanno parte circa 140 aziende medio-grandi, associate nella Federacciai. Un’organizzazione, questa, che ha un tasso di aziende associate pari al 97% di quelle attive nel comparto e che è, dunque, uno dei tassi organizzativi più alti della Confindustria. Ora è vero che l’occupazione nel settore è diminuita, ma ci sono ancora 40 mila addetti nella produzione siderurgica primaria. Un dato, questo, che sale a circa 75 mila addetti con le lavorazioni di prima trasformazione dell’acciaio, tipo la produzione di tubi. Quanto al fatturato annuo, si tratta di circa 30 miliardi di euro. E si tenga presente che i beni esportati assommano, per valore, a circa 10 miliardi di euro.”
Tornando alla prospettiva storica di cui parlavi, che differenza c’è tra i problemi del dopoguerra e quelli attuali?
“La produzione d’acciaio, da un lato, mobilita necessariamente grandi risorse mentre, dall’altro lato, implica una visione ampia delle fasi industriali vissute da un dato paese o da un dato insieme di paesi. Il piano Sinigaglia, che ricordavo prima, è del 1948. Ha preceduto quindi di poco il cosiddetto piano Schuman, che fu presentato nel 1950 e si tradusse, l’anno dopo, nella creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ovvero di quella Ceca che costituì il primo passo lungo la strada che portò poi alla creazione del Mercato comune (Mec), della Comunità economica (Cee) e, infine, dell’Unione europea (Ue).”
“Si trattava, allora, di scegliere una via lungo la quale ricostruire, sia economicamente che politicamente, un continente distrutto dalla Seconda Guerra mondiale. In ogni caso, per le sue stesse proporzioni connesse alle caratteristiche tecnologiche del ciclo integrale, nonché per il suo valore di base produttiva fondamentale per la crescita di altri comparti industriali, la siderurgia è un settore che ha sempre richiamato la necessità di inquadrare il suo sviluppo entro specifici piani industriali. Quello che è stato messo a punto più recentemente dall’Unione Europea, nel 2015, è centrato sulle problematiche ambientali, ovvero sulla necessità di rendere sempre più ecocompatibile la produzione di acciaio. La tecnologia, infatti, consente oggi di produrre acciaio senza devastare il territorio circostante agli stabilimenti e senza mettere a repentaglio la salute dei lavoratori e degli abitanti di tali territori.”
In questo duplice scenario, storico e continentale, che abbiamo visto fin qui, che cosa dovrebbe fare il nostro Paese rispetto alle problematiche dell’industria siderurgica?
“Per prima cosa devo dire che anche rispetto a questa problematica si avverte quell’assenza di politiche industriali che noi denunciamo da tempo per ciò che riguarda, in senso lato, il nostro Paese. Comunque, l’idea della Fiom è che, innanzitutto, questo piano vada ripreso e articolato a livello nazionale. E’ del tutto evidente, per citare il caso che viene per primo in mente, che rendere ecocompatibile lo stabilimento Ilva di Taranto è innanzitutto necessario; ma questo obiettivo sarà anche tanto più realizzabile quanto più resterà aperta l’attività produttiva.”
“In secondo luogo, bisogna operare per accrescere le capacità competitive dell’industria siderurgica italiana, azzerando quei gap che rendono più difficile partecipare alla competizione globale per le imprese basate in Italia. In particolare, occorre abbattere il gap energetico del nostro sistema-paese nei confronti di altri produttori, nonché quello che separa alcune aziende operanti in Italia da altre pure operanti nel nostro Paese.”
“Da questo punto di vista, bisogna riconoscere che l’attuale ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha fatto un’operazione vera sul tema dei costi energetici, ottenendo dall’Unione europea il riconoscimento del fatto che l’abbattimento di tali costi per le aziende che si dedicano a produzioni energivore, quali appunto le imprese siderurgiche, non costituisce un aiuto di Stato.”
“Naturalmente, la questione dei costi energetici è importante per tutte le produzioni metallurgiche, ma va detto che in Italia ha una valenza particolarmente significativa. In Germania, ovvero in un paese la cui siderurgia ha una struttura simile a quella della media delle nazioni produttrici di acciaio, il 60% della produzione viene realizzata con gli altoforni, mentre il 40% viene effettuata con i forni elettrici. L’Italia, invece, ha una struttura tutta sua, anomala rispetto a quella diffusa negli altri paesi. Da noi, solo il 26% della produzione di acciaio è realizzata col sistema dell’altoforno, un sistema attualmente attivo, in pratica, solo a Taranto, con l’Ilva, e a Trieste, con la Ferriera di Servola. Il restante 74% è realizzato, invece, col sistema del forno elettrico, quello di gran lunga prevalente, da sempre, nel Nord-Est, e specie in provincie come quelle di Brescia, Bergamo e Verona. Un sistema i cui parametri di riferimento sono il costo dell’energia elettrica e l’abbondanza del rottame di ferro, che sostituisce il minerale.”
“E qui c’è un altro tassello della nostra elaborazione. Secondo noi, sarebbe necessario costituire un consorzio nazionale costituito con lo scopo di acquisire, a livello globale, le quantità necessarie di rottame di qualità; rottame che possa poi essere rivenduto alle nostre imprese con un prezzo unico.”
Detto questo, quali altri problemi sono più importanti secondo la Fiom?
“Da un punto di vista logico, dopo la questione dei costi energetici viene quella dell’innovazione di processo e di prodotto. Secondo noi, occorre mettere insieme il Csm – ovvero il Centro sviluppo materiali, che è stato ed è un centro di ricerca di eccellenza, nato a suo tempo nell’ambito del sistema delle imprese a partecipazione statale – con le nostre Università.”
“Come ho già detto, anche l’industria siderurgica è percorsa oggi da una fase di profonda innovazione che implica grandi sforzi nel campo della ricerca. Ora è del tutto evidente che, in linea di massima, le imprese siderurgiche italiane non hanno la dimensione necessaria per poter affrontare con successo, da sole, questo tipo di ricerca. Ci vuole dunque una spinta politica che integri l’auspicabile alleanza, di cui ho appena parlato, fra Università e Csm, con investimenti pubblici finalizzati allo sviluppo di ricerche adeguate alla fase attraversata oggi dal settore metallurgico a livello globale.”
E poi?
“Un terzo tema è quello dei costi e dell’efficienza dei sistemi dei trasporti e della logistica esistenti nel nostro Paese. E’, insomma, il tema del divario infrastrutturale che rende l’industria italiana più debole di quella di altri paesi concorrenti. A parità di qualità e di costo dei loro prodotti, vi sono imprese straniere favorite rispetto a quelle del nostro Paese solo perché possono contare su tempi di consegna e/o su costi di trasporto inferiori.”
“Infine, quarto tema è quello della possibile funzione della Cassa depositi e prestiti. Un soggetto pubblico che potrebbe entrare in qualche joint venture anche con grandi gruppi stranieri come elemento di indirizzo delle attività che tali gruppi dovessero svolgere nel nostro Paese. Infatti, chi partecipa al capitale di una joint venture ha ovviamente diritto di essere rappresentato nel Consiglio di amministrazione. E, per tali motivi, abbiamo avanzato al Governo la richiesta che Cdp entri nella compagine azionaria di AM InvestCo, la cordata che, su impulso di ArcelorMittal, si è candidata all’acquisizione del Gruppo Ilva. E mi limito qui a ricordare che la stessa ArcelorMittal non si è dichiarata contraria a questa nostra idea.”
L’Ilva non è solo, e di gran lunga, la più grande impresa siderurgica del nostro Paese. E’ anche quella di cui si è parlato di più, a causa della sua duplice crisi, ambientale e aziendale, e, anche in queste settimane, a partire dalla complessa trattativa che, come hai appena ricordato, è in corso rispetto alla sua possibile acquisizione da parte di ArcelorMittal. Ma l’acciaio, in Italia, non è solo Ilva.
“No certo. Anche se bisogna dire che, dopo la fine della fase recessiva, alcuni protagonisti del nostro sistema siderurgico sono scomparsi. Penso, ad esempio, a una storica azienda bresciana come la Stefana Fratelli. Altri, come Arvedi, Dalmine, Duferco e Marcegaglia, dopo aver attraversato la crisi, si sono posti il tema di come collocarsi nel nuovo scenario globale. E hanno potuto proiettarsi in questi nuovi scenari perché sono partiti dalla scelta di reinvestire gli utili in termini non puramente finanziari, ma specificamente industriali.”
“C’è poi chi è rimasto in mezzo al guado. Penso, in particolare a due pezzi pregiati, anche se di dimensioni assai diverse, del vecchio sistema delle Partecipazioni statali: il gruppo Ilva, appunto, che ha i suoi principali capisaldi a Taranto e Genova, e l’acciaieria di Piombino, attualmente di proprietà di un’impresa a capitale algerino, l’Aferpi. Quest’ultima si è rivelata incapace di gestire le complessità tipiche del settore siderurgico e non ha quindi rispettato gli accordi sottoscritti col Governo; tanto che, ultimamente, è stata avviata la procedura di rescissione del contratto. Occorre quindi individuare un soggetto industriale, tra chi ha già manifestato un proprio interesse, che voglia e possa riportare Piombino alla produzione di acciaio, tornando a occupare lavoratori diretti e indiretti.”
“Noi siamo convinti che vi siano oggi le condizioni affinché queste aziende possano essere rilanciate. Piombino può contare su una collocazione interessante e su una solidissima tradizione storica che ha fatto di quel sito un punto di eccellenza nella produzione di acciaio. Quanto all’Ilva, questo gruppo possiede, con lo stabilimento di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa e può quindi contare su una capacità produttiva quantitativamente molto rilevante per ciò che riguarda i prodotti piani.”
“Oggi, nel mondo, anche nel settore dell’acciaio, così come in altri settori, sono in corso processi di concentrazione o, quanto meno, della costruzione di nuove alleanze. Processi che hanno in Europa il proprio teatro principale. Da un lato, è in corso la costruzione di una joint venture fra il gruppo indiano Tata Steel e il gruppo siderurgico tedesco ThyssenKrupp, frutto di una precedente fusione. Dall’altro, come abbiamo già visto, c’è il tentativo del gruppo franco-indiano ArcelorMittal di acquisire l’italiana Ilva. In prospettiva, potrebbe quindi crearsi un duopolio europeo dotato di una forte proiezione mondiale.”
“In questo scenario, per ArcelorMittal acquisire l’Ilva costituirebbe un’operazione di portata strategica, funzionale al raggiungimento di tre obiettivi: reggere alla competizione globale con Tata Steel; rafforzare, nello specifico, la propria posizione in Europa; posizionarsi in termini vantaggiosi rispetto al mercato italiano, ovvero a un mercato che, come abbiamo detto, è il secondo a livello europeo. Il che significa anche dire che, in questo contesto, per il gruppo Ilva potrebbe aprirsi un futuro quanto meno significativo.”
@Fernando_Liuzzi