Incertezza sulla propria pensione e timore di perdere il lavoro o di avere un percorso professionale discontinuo. È in questo intreccio tra presente e futuro che si saldano le maggiori preoccupazione dei lavoratori, emerse nel corso della presentazione della terza indagine “Il lavoro che cambia. Innovazioni – Aspettative – Incertezze sul futuro”, avvenuta ieri al Cnel. La ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione tra l’associazione Lavoro&Welfare e i ricercatori dell’unità di ricerca LO – Lavoro e organizzazioni, coordinata dal professor Mimmo Carrieri, dell’Università La Sapienza, nonché promossa e sostenuta da Assolavoro.
L’indagine, che giunge dopo quelle del 2002-2003 e del 2009-2010, è stata condotta su un campione di 1.506 lavoratori, autonomi e dipendenti. Uno dei temi più caldi della ricerca, illustrata da Carrieri, è stato quello dei salari. Rispetto alle due rilevazioni precedenti, quest’ultima ci consegna un dato non positivo. Infatti, all’interno di una dinamica contraddistinta dal fenomeno dei bassi salari (stiamo parlando di retribuzione netta), sta emergendo con forza lo spettro dei salari molto bassi o, addirittura, bassissimi. Sul totale dei lavoratori indagati, il 15% di questi percepisce una retribuzione che non supera gli 800 euro, ma c’è un ulteriore 5% che non arriva neanche a 400 euro. Accanto a questi dati, la ricerca ha confermato degli elementi già ampiamenti documentati nelle indagini passate. Permane un forte divario salariale tra Nord e Sud del paese, così come resta altrettanto marcata la disparità nel trattamento retributivo tra uomini e donne. A queste diseguaglianze si sommano poi quelle generazionali, per le quali i giovani guadagnano meno degli anziani, e quelle legate al livello di istruzione, che mostrano una correlazione negativa tra retribuzione e grado di formazione.
Per il 40% del campione analizzato il salario non è sufficiente e il fatto di avere un lavoro non rappresenta più un argine contro la povertà. Al contempo, tuttavia è diffusa un’elevata soddisfazione per il proprio lavoro. Soddisfazione che raggiunge l’80% sul totale del campione e picchi del 90% per gli autonomi. A prima vista questi dati stonano con le opinioni relative ai salari e all’incertezza che contraddistingue il mercato del lavoro. Tuttavia, secondo l’indagine questi alti livelli di soddisfazione trovano la loro giustificazione nel fatto che per i lavoratori avere un’occupazione non è solo garanzia di reddito, ma è un elemento che conferisce una forte identità sociale.
Tuttavia, questo tipo di soddisfazione non è sempre sinonimo di qualità. Per valutare questo aspetto sono stati presi in considerazione cinque criteri: la dimensione economica, quella ergonomica, la dimensione della complessità, l’autonomia e il controllo. Le risposte più interessanti, nel bene e nel male, si riscontrano nella dimensione ergonomica, nel controllo e nell’autonomia. Nella prima area, l’indagine certifica un sensibile miglioramento, frutto di innovazioni tecnologiche e organizzative. Al contrario, sul versante dell’autonomia e del controllo non si registrano particolari cambiamenti; qui anzi, permangono ancora sostanziali differenze tra autonomi e dipendenti.
La più significativa differenza tra l’analisi presentata ieri e le due che l’hanno preceduta è però relativa a un altro campo, quello della rappresentanza politica. La ricerca infatti ha evidenziato una profonda disaffezione e sfiducia da parte dei lavoratori nei confronti dell’ azione dei partiti politici: quasi il 68% del campione è fatto da rispondenti che dichiarano di non sentirsi rappresentati in quanto lavoratori da nessuna forza politica.
Questo scollamento tra mondo del lavoro e politica emerge con maggior forza analizzando le risposte date al quesito sull’appartenenza politica per autocollazione. I due terzi del campione analizzato ha sì dichiarato di aderire a un’area politica, ma, nello specifico, non ha indicato nessun partito.
C’è dunque un mondo del lavoro impaurito, per l’incertezza del futuro e per la precarietà del lavoro, e scoraggiato per l’assenza di risposte convincenti da parte della politica. Ecco perché cresce il bisogno di una maggiore protezione sociale, sia sul versante quantitativo che qualitativo. Per il 40% del campione, la spesa per il welfare deve essere sì razionalizzata, ma non ridotta, mentre per il 30% va estesa ai soggetti più deboli. Tutto questo per evitare che quelle dualità che storicamente attraversano il paese, tra gruppi “forti” e “deboli”, non si acuiscano ulteriormente.
Questo bisogno di protezione sociale e di equità è sottolineato con forza – nel dibattito che è seguito alla presentazione della ricerca – anche dai Segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Camusso, Furlan e Barbagallo hanno sottolineato quanto siano importanti i corpi intermedi, in una fase in cui c’è stata quasi una frana nel rapporto tra mondo del lavoro e politica. I sindacati pensano a sé stessi come soggetti capaci di intercettare il bisogno di maggiori tutele e rappresentanza dei lavoratori. In questo ambito la contrattazione rimane lo strumento principe. Come ha sottolineato Maurizio Stirpe, vicepresidente di Confindutria, è necessariuo che si giunga a una certificazione della rappresentatività dei soggetti firmatari degli accordi, per evitare l’insorgere di contratti pirata che sono poi la causa di una deriva al ribasso di tutti gli istituti della contrattazione.
Rimangono, tuttavia, ampie fette di lavoratori non coperti dalla contrattazione, per i quali vengono meno tutta una serie di tutele. Nello specifico, si tratta di coloro che hanno carriere discontinue o contratti di lavoro atipici. Per costoro possono intervenire diversi strumenti e misure di protezione. Il salario minimo legale, ha osservato Tommaso Nannicini – responsabile Pd per il programma eletorale -, può rappresentare un pavimento, una rete di sicurezza per tutti quelli che svolgono i mini jobs o, comunque, hanno forme di occupazione non toccate dalla contrattazione. La discontinuità lavorativa impedisce, inoltre, il versamento dei contributi necessari per avere una pensione dignitosa. In quest’ottica, pensando in particolare alle generazioni più giovani, Cesarie Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, ha riproposto la sua idea di una pensione di garanzia, ovvero di una base previdenziale minima su cui i giovani di oggi possano appoggiare i contributi previdenziali che riusciranno ad accumulare nelle lore carriere lavorative.
Quello che l’indagine ci restituisce è un mondo del lavoro disarticolato e impaurito, ma anche aperto a nuove soluzioni di problemi vecchi e nuovi. Un mondo del lavoro che non ragiona in un’ottica di diritti individuali, ma in una prospettiva di ripensamento e rimodulazione collettiva della protezione sociale più attenta alla tutela immediata dei salari, ma, allo stesso tempo, capace di saper allungare il proprio sguardo anche alle problematiche future.
Tommaso Nutarelli