«Che difenda il posto di lavoro e non il lavoro in sé, che offra protezione. Il Jobs act è sbagliato non per l’abolizione dell’articolo 18, ma perché contiene un indebolimento sostanziale degli ammortizzatori sociali». Queste parole – riferite al nuovo ruolo auspicato per la sinistra – contenute in una intervista a Repubblica di Carlo Calenda (il nuovo ‘’difensore della fede’’) hanno colto di sorpresa i commentatori perché sono sembrate un’abiura del jobs act. Tanto che lo stesso ministro si è affrettato a precisare che bisogna ripensare il sistema degli ammortizzatori per prepararci ad affrontare transizioni industriali sempre più rapide e convulse. E ad aggiungere che il dibattito sul ripristino dell’art. 18 nulla ha a che fare con quello che realmente serve all’Italia. Ma le parole sono pietre: quando si chiede alla sinistra di difendere il posto di lavoro e non il lavoro in sé, volenti o nolenti, si evoca l’articolo 18 (che è tutt’altro che abolito dal momento che – nella versione della legge n.92/2012, la riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero – è tuttora in vigore per la (stra)grande maggioranza dei lavoratori dipendenti. Soltanto tra diversi decenni – ammesso e non concesso che il quadro normativo rimanga immutato – il regime previsto dal dlgs n.23/2015 (il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) potrebbe avere un’applicazione tendenzialmente prevalente nel mercato del lavoro.
Parlare, quindi, di avvenuta abolizione dell’articolo 18 è un eufemismo, una fake news come si dice adesso. Ma dalle parole di Calenda è giunto un segnale chiaro: quello che Pietro Ichino definisce il concetto di job property è ancora vivo e lotta insieme a noi. Ovviamente si tratta di una illusione ottica, di una chimera. Ma come ha scritto Sebastiano Vassallo: “le Chimere sono animali feroci. Gli uomini si nutrono di chimere; le chimere di uomini”. Durante gli anni della crisi (in realtà si è combattuto in modo virtuale la terza guerra mondiale), benché fosse ancora “folgorante in soglio” l’articolo 18, si è perduto un milione di posti di lavoro di cui nessun giudice avrebbe potuto ordinare la reintegra. Il fatto è che parlare di tutela del lavoro in sé, è anche esso una chimera, perché un sistema di politiche attive efficienti ed efficaci è di là da venire.
Ecco perché fanno breccia le vecchie risposte: il pensionamento anticipato, la tutela reale nel licenziamento individuale, la concessione di ammortizzatori sociali senza scadenze, per arrivare di un balzo alle ultime trovate dell’assistenzialismo: un reddito di cittadinanza che, in pratica, consenta di vivere senza lavorare. Sappiamo che queste non sono soluzioni e che continuerebbero a nascondere – come è sempre avvenuto in passato – sacche di lavoro sommerso a spese dell’intera collettività, insieme con il degrado dell’economia di intere zone del nostro Paese. Se ci rassegnassimo con il vecchio Hegel a ribadire che ciò che è reale è anche razionale, potremmo solo rinchiuderci nella solita litania secondo la quale il popolo si è rifugiato entro i confini del vecchio mondo perché non siamo stati capaci di consegnargliene uno nuovo, insieme con un diverso quadro di convenienze. Ma è troppo comodo consentire di cavarsela così a milioni di persone, investite della responsabilità democratica di scegliere il proprio destino.
In questi giorni mi è capitato di imbattermi casualmente su Youtube nel comizio svolto dal Duce, dallo storico balcone di Piazza Venezia, per annunciare, il 10 giugno del 1940, l’entrata in guerra dell’Italia. Il film-luce dell’epoca esibiva piazze stracolme ed osannanti nelle più importanti città, dal Nord al Sud della Penisola. Oggi suscita ilarità che il Pd vinca nei quartieri alti, nei centri storici, mentre sia sparito nelle periferie, dove un tempo l’antenato Pci raccoglieva la maggioranza dei voti. Sarà certamente un problema del Pd, ma lo è anche per la “ggente de borgata” (come si diceva una volta). E’ duro – per una persona della mia storia – accorgersi che la classe lavoratrice e i ceti popolari non sono più le avanguardie del progresso, ma possono divenire la base di massa di una nuova reazione (magari per ritrovarsi in piazza ad osannare un altro comico senza divisa).
Sedici anni or sono le Br uccidevano sotto casa a due passi dalle Due Torri il mio amico Marco Biagi. Il suo pensiero, la sua opera, il suo lavoro sono stati a lungo vilipesi. Poi nella passata legislatura le sue intuizioni (per merito di una élite che si è trovata quasi per caso alla direzione del Paese) sono divenute in gran parte materia del nuovo diritto del lavoro nonostante il perdurare di una cieca ostilità contro la svolta impersonata dal jobs act. Ora torneranno ad avere la meglio i nemici di sempre? Ma noi non molleremo. Come scrisse Marco nel suo pubblicato postumo dal Sole-24ore, con il titolo “Il dado è tratto”: ‘’Ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità’’. Il prezzo pagato da Marco (e dai suoi cari) è stato il più alto di tutti. Egli ci ha insegnato, però, che l’esistenza umana (di cui la morte è solo un episodio) non avrebbe un senso compiuto se non fosse animata da valori e principi in nome dei quali si è disposti e pronti a perdere tutto.