Secondo Salvemini il riformismo doveva avere il coraggio qualche volta “di dire ai più fortunati: alto là, niente di nuovo per voi fino a che gli altri che sono in coda non abbiano ottenuto anch’essi qualcosa”. Nell’esito politico del recente voto, forse ha pesato anche questa poca lungimiranza “riformista” specialmente nei riguardi delle popolazioni meridionali
Il voto in realtà è stato meno sorprendente di quello che si è portati a credere: ha evidenziato in modo inequivocabile non solo la conclusione del periodo politico successivo a Tangentopoli, non solo il fallimento di una parte consistente della classe dirigente, ma anche la profondità delle divisioni e delle diseguaglianze presenti nel Paese.
Ed una lettura disincantata di quanto è avvenuto nelle elezioni non può non condurre alla considerazione che il riformismo non è più riuscito a far prevalere le ragioni della coesione, lasciando campo libero alla protesta.
Una protesta occultata da un lungo periodo di implosione nella quale si sono concentrate tutte le paure, le incertezze, le delusioni che hanno covato in particolare nella lunghissima recessione che abbiamo alle spalle. Una implosione che poteva sfociare in un ribellismo di piazza, ma che per ora ha sfogato la sua sfiducia premiando le forze che più di altre apparivano come antisistema, o come si dice ora “sovraniste”.
In questo senso i grandi consensi che si sono concentrati al sud sui Cinquestelle e in parte sulla Lega determinando la sconfitta di Forza Italia e del Pd, non trovano giustificazione tanto nella promessa del reddito di cittadinanza od in quella di una maggiore sicurezza nei confronti dell’immigrazione, quanto nel declino complessivo di quelle terre, sul piano economico e sociale che tutti gli indicatori, inascoltati, segnalavano da tempo a cominciare dalla fuga dei giovani verso altri Paesi.
La questione meridionale è stata rimossa anche dalle forze politiche che si dicevano riformiste quasi con supponente fastidio, proprio quando invece la profonda crisi l’aveva riproposta, evidenziando anche la fragilità e le contraddizioni del sistema politico.
Certo, l’economia italiana si sta risollevando e questo va a merito anche di alcune scelte compiute dai governi degli ultimi anni. Ma non ha intaccato, se non marginalmente, i nodi che abbiamo tuttora davanti e che certamente non si sciolgono con scelte assistenziali , come si è sostenuto di recente, affermando che il lavoro retribuito non sarebbe più necessario mentre servirebbe un “reddito per diritto di nascita”.
In realtà tanto, troppo, del lavoro retribuito soffre della zavorra della precarietà. E non poco di quel lavoro che riguarda i quarantenni e i cinquantenni è sottoposto ad una poderosa rivoluzione tecnologica che finora ha prodotto più emarginazione che riqualificazione.
Il grande problema che l’Italia ha di fronte allora non è quello, incombente, della instabilità politica che può essere attenuata, come l’esperienza insegna, in vari modi, quanto quello di intervenire sull’evoluzione economica e civile per arrestare la frantumazione sociale e per ridurre le reali diseguaglianze che finiscono per minare anche la credibilità della azione politica se essa non contiene risposte concrete, tangibili, eticamente inattaccabili.
In questo senso non si deve aver paura di vedere all’opera nuovi protagonisti politici, come se fossero il frutto di un destino ineluttabile.
Né pare saggio attardarsi nella amarezza che la tenuta economica del Paese non abbia premiato chi si riteneva l’autore principale di essa, o nella ricerca di rivincite da consumarsi osservando il fallimento eventuale di chi ha vinto le elezioni.
Va invece preso atto, pragmaticamente, che lo scenario politico è mutato e che soprattutto vanno ricostruite le basi di un riformismo nuovo, culturalmente attrezzato, presente e radicato nel mondo del lavoro, in grado di esprimere una cultura della partecipazione nella politica come nell’economia diversa da quella che ha prodotto una autoreferenzialità lontana dalla percezione della gente.
Il movimento sindacale ha un compito importante da svolgere in questa delicata fase della vita del Paese. Non ci siamo mai negati ad un confronto sui problemi reali con gli Esecutivi che si sono succeduti nel tempo, e questo atteggiamento di piena autonomia e di proposta va consolidato e rafforzato unitariamente.
Ci siamo battuti per un’Europa sociale e solidale ed abbiamo tuttora le carte in regola per rilanciare questa visione non burocratica o di élite politiche del nostro Continente che sta rischiando, in un contesto internazionale assai diverso dal passato, di diventare sempre più, a dispetto delle sue potenzialità, marginale ed esposto a contrasti di interesse alle prese con il pericolo protezionista ed i nazionalismi di ritorno.
Abbiamo efficacemente difeso il nostro ruolo contrattuale, sancito inoltre da un accordo con le Associazioni imprenditoriali che guarda al futuro e che può favorire progetti di democrazia economica e di partecipazione che siano, sia pur indirettamente, di stimolo anche al rinnovamento della vita politica.
Naturalmente le elezioni contengono alcune lezioni per tutti. Ed è quella di preferire il radicamento sociale e nel mondo del lavoro alle suggestioni delle mode, ad esperienze che non vanno oltre il giorno per giorno, declassando il progetto ad una pura perdita di tempo.
Così come non si deve incorrere nell’errore che il limite di sopportazione dei giovani, delle famiglie, degli anziani sia infinito come una delega senza tempo.
E soprattutto che si possa stare a guardare. Invece, non possiamo non incalzare Istituzioni e poteri di Governo su questioni cruciali per il futuro di tutti: serve una politica industriale che non spacchi il Paese e non faccia accumulare ritardi; torna ad essere importante in economia un ruolo propositivo dello Stato; ci si deve preparare ad un periodo nel quale il sostegno della liquidità monetaria immessa dalla Bce gradualmente finirà e ci riproporrà l’eterno problema del debito pubblico e delle compatibilità.
Ma soprattutto non dobbiamo mollare la presa sulla centralità del lavoro. Questo per il sindacato deve essere il vero banco di prova sul quale giudicare le future scelte politiche. Il lavoro è la cartina tornasole del grado di civiltà di una società. Lo è stato, lo è, lo sarà. Attorno al lavoro ruotano diritti della persona che noi consideriamo fondamentali per garantire alla vita di tutti dignità e prospettive. Il lavoro non può essere considerato pura sopravvivenza, deve poter garantire una vita meritevole di essere vissuta e la libertà necessaria per farlo. Il lavoro può e deve essere l’antidoto più efficace per impedire il declino. Ecco perché mentre attendiamo “nuove” che dal mondo politico, sappiamo che il nostro impegno deve rimanere lo stesso di sempre: tutele, diritti, partecipazione ed opportunità per tutti.