Tre milioni di posti di lavoro in fumo, mica bruscolini. Questo è il conto che robot e software presenteranno nei prossimi anni all’occupazione italiana. Prima di spaventarvi, tenete conto che questa – degli uffici studi dell’Ocse – è la valutazione ottimistica: ne circolano assai peggio, fino a dieci milioni. Ma questa è meno drammatica, perché tenta di distinguere fra lavori che scompaiono e lavori che vengono rivoluzionati. Se però li sommate, arrivate appunto a dieci milioni, metà, grosso modo, della forza lavoro italiana.
Sugli effetti che l’automazione e la digitalizzazione hanno avuto e avranno sul lavoro come lo conosciamo, studi e rapporti, previsioni e proiezioni si ammucchiano ormai da qualche anno. Tutti dicono che i lavori più sacrificati saranno quelli che si esauriscono in compiti di routine, in ufficio o in fabbrica. Il rapporto Ocse consente di farsi una sorta di autocertificazione, a occhio o a spanne. Il vostro lavoro prevede che voi ve ne veniate fuori con qualche idea originale che risolva un problema, inventi un prodotto, chiuda una crisi? Prima tacca, voi creativi siete a posto. Il vostro lavoro prevede che riusciate a cogliere emozioni e sentimenti della gente che incontrate e a comportarvi di conseguenza? Seconda tacca, voi sensibili siete a posto. Il vostro lavoro prevede che regoliate oggetti e meccanismi, in un ambiente mutevole e in una situazione complessa, non programmabile: regolare il giroscopio in plancia – per dire – mentre c’è la tempesta? Terza tacca, voi maghetti siete a posto. Questi tre tipi di lavori sono quelli per cui l’Ocse individua “colli di bottiglia ingegneristici” per cui l’automazione è proibitivamente complicata. Per tutti gli altri, è caccia aperta.
Questo non significa che tutti gli altri lavori spariranno. La proiezione dell’Ocse è che, nei paesi industrializzati, i lavori con un rischio di automazione superiore al 70 per cento siano il 14 per cento del totale. L’Italia è in media: ma il 14 per cento di 20 milioni di lavoratori fa – appunto – 3 milioni di posti a rischio. E non finisce qui. Secondo l’Ocse, un altro 32 per cento ha il 50-70 per cento di probabilità di doversi preparare a mutamenti radicali in quello che fa . Per l’Italia, la proiezione prevede un po’ di più: 40 per cento. Del resto, ci siamo tutti già in mezzo: vi occupavate dei rimborsi spese dei dipendenti, contare gli scontrini e elencarli in un registro? D’ora in poi, lo farete con un software.
E, qui, l’Ocse individua un buco, un problema: cosa fanno aziende e governi per preparare i lavoratori ai mutamenti che li aspettano? Poco, anzi pochissimo e il paese in cui state fa tutta la differenza. In Danimarca (il paese che ha inventato la flessibilità protetta dell’occupazione) e in Nuova Zelanda il 60 per cento dei lavoratori prende parte a corsi di aggiornamento, per una media di 40 ore l’anno. In Italia arriviamo appena ad uno su cinque: questo 20 per cento di fortunati mette insieme poco più di 30 ore di aggiornamento l’anno. Ma le medie, come sempre, dicono poco. Chi più rischia con automazione e software sono le basse qualifiche. Già oggi, dice l’Ocse, i robot insidiano i salari: un 10 per cento in più di rischio di automazione corrisponde ad un 4,3 per cento di salario orario in meno. Sono, insomma, i lavorarori più vulnerabili. E, per loro, per cui sarebbe vitale, la formazione è una chimera. Nel caso delle basse qualifiche, infatti, la formazione professionale si dimezza drasticamente al 10 per cento dei lavoratori italiani interessati.
C’è un altro rischio legato ai processi di automazione e digitalizzazione e non è il primo che verrebbe in mente. Ad esserne penalizzati potrebbero esserne, infatti, soprattutto i giovani. In una normale traiettoria lavorativa, dice l’Ocse, un giovane parte abitualmente, magari quando è ancora studente o apprendista, dalle qualifiche più basse, per trovare poi una collocazione più adatta anche al proprio livello culturale. Ma quei lavori più semplici e umili potrebbero essere intasati dai robot o inglobati in un software. Spostare i pacchi in un magazzino di Amazon potrebbe non esser più – e, in parte, già non è più – un affare da neoassunti o precari. Insomma, papà è stato licenziato da un robot e il figlio deve scavalcarlo.