Sintetizzare in poche parole la complessità del convegno “Contrattazione collettiva, mercato del lavoro e produttività” che si è tenuto all’Università Roma Tre e organizzato dal Centro Rossi Doria è impresa ardua, ma sostanzialmente, la domanda attorno al quale si è svolto il convegno riguarda la direzione economica che prenderà questo paese. Nella sala lauree della Facoltà di Economia in via Silvio d’Amico, si è discusso di contrattazione collettiva, mercato del lavoro e produttività ma anche di uguaglianza e benessere. Tutte variabili fortemente interconnesse tra loro. Come ogni economista che si rispetti sa, il modo in cui si intrecciano queste variabili non è frutto esclusivamente della scienza ma soprattutto dalla scelta, da parte degli studiosi, del punto di vista con cui guardarle. Il che, in materia economica, è sostanza.
Il convegno si è aperto con l’esposizione di due lavori di ricerca. Il primo “Unintended Consequences of Nominal Wage Equality Across Regions” curato da Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch. Il secondo, “Collective Bargaining, Cost of Living, and Urban Wage Premia”, curato da Marianna Belloc, Paolo Naticchioni e Claudia Vittori.
Posch ha esposto una ricerca basata sulle differenze regionali di Italia e Germania. La classica frattura Nord-Sud dell’Italia è stata messa a confronto con la frattura Est-Ovest della Germania. Quello che accomuna queste regioni sono i livelli di produttività. Si riscontrano bassi livelli di produttività nelle regioni depresse e alti livelli di produttività nelle regioni industriali dei rispettivi paesi. Per compensare queste differenze, ha spiegato Posch ad una vasta platea, in Germania dagli anni ’90 si è sviluppato un sistema di contrattazione collettiva a livello regionale, si è indebolita la contrattazione sindacale centralizzata e sono state inserite le “opening clauses” che consentono alle compagnie di derogare ai contratti collettivi nazionali. Queste misure hanno portato ad un aumento dei salari nominali, alla distribuzione uniforme nel paese dei prezzi della case e all’abbassamento della differenza occupazionale tra le regioni. In Italia invece, secondo il gruppo di studiosi che ha curato il paper, abbiamo salari reali più alti al nord ma salari nominali più alti al sud a causa anche del prezzo delle case e come è risaputo una maggiore disoccupazione a Sud. La contrattazione collettiva a livello nazionale quindi non ha ragione di essere, anzi, secondo Posch i lavoratori del sud non emigrano al nord perchè non conviene. Alquanto discutibile, considerando i livelli di emigrazione degli ultimi anni. Come ha puntualizzato il Professor Maurizio Franzini dell’Università La Sapienza: tra il 2002 e il 2015 sono emigrate dal Mezzogiorno 716mila persone di cui giovani 530mila. Inoltre, l’effetto dell’aumento della disuguaglianza sul paese sarebbe devastante. Abbassare i salari vuol dire aumentare i profitti allargando ancora di più la forbice della inequality interna al paese. Secondo Franzini se si vuole aumentare l’occupazione al Sud bisognerebbe intervenire sulla qualità dei servizi.
Il secondo paper, molto legato al primo, ha approfondito il legame tra salari e prezzi. Nei centri urbani – ha speigato Paolo Natticchioni dell’Università di Roma Tre – i lavoratori sono penalizzati in termini di salari reali per l’elevato livello dei prezzi delle case e dei servizi. Analizzando, inoltre, i salari dei lavoratori autonomi, attraverso le recenti rilevazioni Inps, si evince che sia i cosiddetti “Collaboratori” che gli Standard Self Employment hanno salari più alti nei centri urbani. I lavoratori autonomi in mancanza di una compertura contrattuale decidono il salario con i propri datori di lavoro in base alle loro “esigenze urbane”. Secondo i ricercatori che hanno prodotto il secondo paper, infatti, in Italia c’è una proliferazione importante di contratti pirata a causa delle poca flessibilità che ha la contrattazione nel nostro paese. Attenuare la rigidità della contrattazione nazionale può garantire un ruolo più forte per i sindacati a livello locale, si possono ottenere salari più alti in zone dove la produttività è più alta e infine contrattare salari più bassi in cambio di tassi più alti di occupazione.
Michele Raitano, della facoltà di economia dell’Università La Sapienza, ha sottolineato in critica ai papers esposti che negli studi sulla disuguaglianza sono molto più dominanti le differenze interne alle aree piuttosto che tra le aree. In sostanza, è difficile guardare all’Italia senza considerare le differenze tra centro e periferia e tra centri urbani e quelli rurali interne alle stesse regioni che siano al meridione o no. Inoltre, questione di non poco conto, il benessere e quindi il salario reale si deve misurare prendendo in considerazione i consumi ma anche i servizi presenti su un territorio. Se i servizi sono assolutamente insufficienti, come avviene al Sud, il salario reale è molto più basso di quello che appare. Per esempio: chi vive al sud se ha bisogno di usufruire di un servizio sanitario di una certa qualità lo deve pagare o si deve spostare nelle città del Nord dove i servizi sono efficienti, il che comporta una spesa. Allo stesso modo per quanto riguarda il welfare occupazionale: molto diverso nei vari territori.
Durante la tavola rotonda si sono confrontate due idee di policy. Marco Leonardi, dell’Università di Milano e consigliere economico dell’ultimo governo, ha ribadito che di fronte alla situazione italiana fatta delle differenze tra nord e sud esposte dai papers e amplificate dalla crisi economica si può agire sui salari nominali come si è proposto oppure no. C’è sicuramente bisogno di rafforzare la contrattazione decentrata, ha affermato Leonardi, ma per portare il Sud a livelli accettabili si possono mettere in campo due possibili strategie: favorire incentivi alle aziende, quindi incidere sul lato dell’offerta pensando ad incentivi dedicati basati sulle particolarità del meridione come è stato fatto fino ad ora, oppure incidere sulla domanda. Quest’ultima strategia si basa sul reddito di cittadinanza come proposto da altre compagini politiche evidentemente.
Provocazione non colta dal possibile Ministro del lavoro pentastellato, Pasquale Tridico che ha esposto le sue considerazioni rispetto alla materia oggetto del dibattito. Secondo il Professore di Roma Tre non si può considerare la produttività una variabile esogena ma intrinseca al sistema economico italiano. Ecco perchè l’abbassamento della produttività nel nostro paese ha origini nella mancanza di investimenti in innovazione su cui, invece, ha puntato la Germania. A differenza dei papers presentati, il professore della Facoltà di Economia “Federico Caffè” ha affermato che c’è una relazione positiva tra contrattazione e produttività e tra contrattazione e occupazione. Le differenze salariali, secondo Tridico, tra Nord e Sud sono già una realtà e non portano a dei benefici in termini di produttività. Quello che propone Tridico è la produttività programmata per indurre le aziende al miglioramento e ai lavoratori alla collaborazione. Per esempio, se in sede di contrattazione collettiva la produttività è decisa al 5% entro due anni i lavoratori e le aziende avranno una quota su quella previsione. Se i risultati saranno rispettati, il 2,5% di quella produttività guadagnata andrà ai lavoratori e il 2,5% all’azienda. Se i risultati saranno inferiori a quelli previsti, per esempio raggiungendo solo il 4%, il 2,5% della produttività andrà sempre ai lavoratori, mentre l’1,5% all’azienda. Infine, se i risultati saranno superiori, ad esempio dell’8%, il surplus andrà all’azienda. Un meccanismo per incentivare il miglioramento e l’innovazione organizzativa e della qualità del prodotto allo scopo di aumentare la produttività. Le imprese italiane, infatti, di fronte all’abbassamento dei salari avvenuta dopo il ’92 hanno scelto di non innovare, abbassando di conseguenza la produttività del lavoro. Ma c’è chi ha sentenziato: programmare i livelli di produttività non è la stessa cosa che programmare l’inflazione come avvenne negli anni ’90.
Alla fine della tavola rotonda, diversi gli interventi di studenti, accademici, forze politiche e sindacali nonostante il poco tempo destinato al dibattito. Ci si chiede però, di fronte a questi convegni, quanto sia presa in considerazione la voce dei possibili destinatari di questi interventi di policy, ovvero i lavoratori o i disoccupati del paese. Sembrano lontani i tempi in cui a veicolare, spingere e creare le riforme erano le lotte sul lavoro per l’aumento dei salari e per l’abbassamento dei prezzi delle case. Nella storia del nostro paese, e non solo, a determinare l’economia c’erano anche persone in carne e ossa che chiedevano più diritti e più uguaglianza. A fianco alle analisi partorite dietro le tastiere e i programmi di statistica economica, infatti, c’è un mondo la fuori che prende le proprie scelte sul posto di lavoro e sulla propria vita. Sono le stesse persone che poi sono chiamate a votare. Evitare di prenderle in considerazione è un errore anche come metodo di studio dell’economia. L’economia, infatti, è per eccellenza una scienza sociale, prima che di ‘’numeri”. E’ una scienza che ha cambiato il suo corso nella storia quando una variabile in particolare ha deciso di prendersi carico del suo destino: le persone.
Alessia Pontoriero